Lo sforzo che serve sul lavoro

di Dario Di Vico

Quanto l’azione del governo Draghi riscuote meritati consensi sul fronte del contenimento dell’emergenza Covid, tanto risultano deludenti il disegno e l’attuazione delle politiche per il lavoro. La sensazione è che non si stia dedicando alla formazione delle competenze la stessa cura che ricevono (giustamente) la transizione ecologica e quella digitale. Di questo passo, però, si andrà a rendere lacerante la contraddizione tra un sistema produttivo che ha scelto di posizionarsi sulla fascia alta del mercato e politiche per il capitale umano che non seguono lo stesso itinerario, ma sono dettate dalle esigenze di posizionamento politico del ministro di turno. Si incentivano gli investimenti per le macchine 4.0 ma non si preparano i macchinisti, come purtroppo dimostra l’impossibilità da parte delle multinazionali tascabili del nuovo triangolo industriale di trovare i tecnici di cui hanno bisogno.

In linea di principio il lavoro avrebbe dovuto avere diritto nell’ambito del Pnrr al rango di riforma, come è stato riconosciuto alla concorrenza. Non è stato possibile perché Bruxelles non avrebbe accettato di finanziare quelle che in gergo si chiamano politiche passive (la riscrittura degli ammortizzatori sociali) e così alle scelte per l’occupazione è venuto meno un faro, un criterio ordinatore. Dopo la damnatio memoriae del Jobs act avremmo avuto bisogno di chiarirci le idee e di mettere nero su bianco un programma «laburista» di medio termine. Un programma che magari pescasse qualche idea dal rapporto finale del Gruppo dei Trenta, redatto in tempi non sospetti da Mario Draghi e dall’indiano Raghuram Rajan. Purtroppo però la politica italiana usa il Lavoro come un ministero-bandiera e quindi almeno dal 2018 si procede all’insegna del taglia-cuci-e-riscuci dei diversi provvedimenti adottati. Molta giurisprudenza di pronto intervento, poca economia.

E basta leggere le pagine del Pnrr dedicate al lavoro per rafforzarsi in questo giudizio. In buona sostanza la stesura è rimasta quella dei tempi del governo Conte con un’unica solida intenzione: dare più soldi alle strutture esistenti. Ma le risorse non sono una bacchetta magica, non trasformano i rospi in re e quindi quelle strutture sono destinate a rimanere inefficienti anche con una maggiore dotazione di personale. Vale per i Centri per l’impiego che andrebbero ripensati in partenariato con le agenzie del lavoro (che non possono essere nominate perché in odore di turbo-capitalismo!), vale in una chiave diversa per il programma per l’occupabilità (Gol) di competenza delle Regioni ma che purtroppo rischia agli occhi di Bruxelles di apparire come una duplicazione di fondi. C’è ampia materia, dunque, per una vera discussione sull’indirizzo che stanno prendendo le politiche per il lavoro. Anche perché si avvicina la scadenza della riforma degli ammortizzatori sociali e sembra prevalere l’orientamento più dispendioso, quello della «Cassa per tutti», una scelta che non possiamo permetterci sine die.

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