Il commissario Draghi
Quel “garantisco io” offerto come assicurazione massima a Bruxelles per il via libera al Recovery non è stato dimenticato. Perché Mario Draghi sa che l’Italia è chiamata a fare le riforme, ma anche a spendere, nei tempi concordati con l’Europa, i 248 miliardi che arriveranno nei prossimi cinque anni. A tranche: se i progetti non vanno avanti – e la garanzia deve trovare forma qui – il rubinetto dell’erogazione si chiude. Ora quel garantisco io diventa controllo io. Articolo 13 del decreto sulla governance: il “commissario” Draghi è il perno di quei poteri sostitutivi che gli permetteranno di togliere i soldi alla Regione o al Comune che “anche solo potenzialmente” metterà a rischio, per ritardo o inerzia, gli obiettivi dell’impegno e cioè trasformare le risorse in asili nido, piste ciclabili, parchi agrisolari e in tutto quello che prevedono i progetti del Recovery. Lo farà il premier attraverso il Consiglio dei ministri, ma soprattutto – e questo delinea l’assetto della governance politica – su input di un asse che parte dal Tesoro e arriva fino a palazzo Chigi, dove nascerà una segreteria tecnica che ha questo sottotitolo politico: il gabinetto di Draghi per il Recovery.
L’attivazione dei poteri sostitutivi aggiunge un tassello alla gestione centralizzata del Recovery a palazzo Chigi che è frutto del metodo Draghi. I passaggi decisivi danno l’idea della costruzione di questa centralizzazione: la scelta dei ministri tecnici (Cingolani, Colao e Giovannini) a cui affidare la fetta più grande dei soldi, la trasformazione del Tesoro del fidatissimo Daniele Franco nella centrale per il monitoraggio, la rendicontazione e il controllo. Ancora le nomine di Cdp e Fs in chiave Recovery per portare nella squadra i “ministri” per gli investimenti, a iniziare dall’altrettanto fedelissimo Dario Scannapieco. Non è solo una questione di poteri. Contano anche gli uomini che decidono insieme a Draghi e il luogo fisico dei poteri stessi. L’upgrade di palazzo Chigi come cabina di comando del Recovery non è solo la segreteria tecnica, ma anche – altra novità che emerge dalla bozza del decreto sulla governance – un’Unità per la qualità della regolazione, una struttura che potrà mettere mano alle leggi per non fare inciampare il Recovery in lungaggini e burocrazia.
Prima di passare in esame come Draghi ha deciso di costruire la governance del Recovery è utile mettere in fila un ultimo elemento generale che è anch’esso spia della centralizzazione a Chigi. Una governance si misura dai poteri dei soggetti che ne fanno parte, ma anche da quanto viene dato agli altri soggetti che sono coinvolti nel progetto. C’è chi i poteri non ce l’ha: a sindacati e imprese solo funzioni consultive. Potranno proporre, ma non decidere. E le Regioni, le Province e i Comuni – i cosiddetti soggetti attuatori – sono caricati di responsabilità: molti oneri, pochi onori.
I poteri sostitutivi possono arrivare fino al commissariamento
Se le Regioni, le Province e i Comuni non rispetteranno gli impegni e gli obblighi necessari per fare andare i progetti, allora il premier, su proposta della cabina di regia o del ministro competente, darà al soggetto attuatore 15 giorni di tempo. Il potere in mano a Draghi è rilevante perché – è bene ricordarlo – potrà attivarlo anche se il conseguimento degli obiettivi intermedi e finali del Recovery è “solo potenzialmente a rischio”. Spetterà poi al Consiglio dei ministri, attivato dal premier, procedere alla sostituzione del soggetto attuatore se l’inadempienza non si dovesse risolvere dopo i 15 giorni concessi. In questo caso si potrà arrivare anche alla nomina di uno o più commissari.
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