Mario Draghi e la ripresa: la tregua delle fazioni

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di   Federico Fubini

Alla fine Mario Draghi e il suo manipolo di ministri e collaboratori si sono aperti una strada nella giungla anche stavolta. Non hanno usato il machete, ma un guanto di velluto per rimuovere dolcemente i blocchi sul cammino delle riforme per il Recovery o qualche parola nei testi di un decreto in modo da dare a tutti un motivo per potersi dichiarare vincitori. Le Regioni «coinvolte»; i subappalti saranno vigilati, dunque i sindacati possono stare tranquilli e il Pd può ascriversi un merito; le soprintendenze verranno espropriate dei loro poteri solo se si addormentano sulle decisioni. Tutti possono dire di aver difeso il loro quadratino di potere.

Ma la sostanza è altrove: circondati dal solito pessimismo tipicamente italiano di tanti, anche fra i sostenitori, Draghi e i suoi vanno avanti. Si stanno aprendo una strada nella giunga dei veti e delle corporazioni esattamente secondo la tabella di marcia promessa. Il 30 aprile è partito per Bruxelles un Piano di ripresa e resilienza cinque volte più dettagliato e incisivo di quello ereditato dal precedente governo (per l’esattezza, 2.480 pagine contro 500). Entro maggio uscirà in Gazzetta Ufficiale il decreto che semplifica e accelera i passaggi amministrativi per gli investimenti e impernia su Palazzo Chigi (indirizzo politico) e sul ministero dell’Economia (gestione finanziaria) il governo del Recovery. Il tutto con il sì del Movimento 5 Stelle, della Lega di Matteo Salvini, degli altri partiti di maggioranza, della Cgil di Maurizio Landini e delle Regioni che fino a poche ore prima minacciavano ricorsi in Corte costituzionale. Ora invece non vola una mosca. Scusate se è poco.

Sarebbe ingenuo pensare che tutta questa improvvisa armonia si debba a un momento di illuminazione delle classi dirigenti italiane. Restiamo come prima particolaristi, miopi, proclivi ciascuno alla difesa della nostra corporazione piuttosto che dell’interesse generale. In questo Draghi sta sperimentando la stessa parabola che ha accompagnato altri governi istituzionali chiamati nelle emergenze. Di solito erano crisi finanziarie, stavolta è sanitaria. Ma nella prima fase di un governo tecnico le tribù del Paese sospendono sempre le ostilità reciproche e si riuniscono attorno all’uomo chiamato a salvarle. O almeno lo lasciano lavorare. Poi non appena la morsa dell’emergenza si allenta, come succede ora con la pandemia grazie alla campagna vaccinale, i particolarismi riemergono. Ciascuno deve marcare il territorio. Ecco dunque il Pd con la «dote ai diciottenni» grazie alla tassa di successione, la Lega con la tassa «piatta», il Movimento 5 Stelle che si impunta contro un principio di civiltà qual è la prescrizione. Per non parlare dei particolarismi nella società: gli alti funzionari dello Stato in rivolta contro una riforma dell’amministrazione che permette di assumere esperti di alto livello a chiamata diretta; il sindacato che vuole mantenere il divieto di licenziamento per legge, caso unico al mondo a questo punto.

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