Tra populismo e malagiustizia Tra populismo e malagiustizia
Massimo Giannini
Come la Bad Godesberg dei socialdemocratici tedeschi nel 1959 o la Bolognina dei comunisti italiani nel 1989. Come l’abolizione della “Clausola 4” dei laburisti inglesi nel 1995 o il congresso di Fiuggi dei missini tricolore nello stesso anno. Piovono paragoni storici a go-go, sull’atto di dolore che Luigi Di Maio ha dedicato all’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti. È normale: a forza di galleggiare inerti nell’accidioso ma rissoso stagno della bassa politica, tendiamo a intravedere svolte continue dietro ogni angolo dei palazzi romani e dentro ogni sospiro dei leader nostrani. Ma oggi più che mai si impone la domanda alla quale ieri ha cercato una risposta su questo giornale Massimiliano Panarari: la svolta c’è sul serio? E’ davvero “la fine del populismo”, come si affretta a sentenziare Matteo Renzi, il “light-populist” che non sopporta imitatori in versione “hard”? Oppure è solo “la fiera dell’opportunismo”, come sospettano i critici e gli esegeti del pensiero grillino?
Probabilmente c’è un pezzo di verità in entrambe le chiavi di lettura. Ma a me pare che la prima sia di gran lunga più importante della seconda, dall’unico punto di vista che, come cittadini, ci deve interessare: le conseguenze sui problemi del Paese, sull’evoluzione dei partiti, sull’azione di governo. Certo, per esserne persuasi bisognerebbe smettere di essere “italioti”, e provare per una volta ad essere italiani. Disdire l’abbonamento alle opposte curve ultrà. Uscire dal clima tossico del derby permanente. Da una parte i Giustizialisti, che per una malintesa idea della legalità considerano i pm sempre infallibili e gli imputati comunque colpevoli. Dall’altro lato i Garantisti, che per una malintesa idea della libertà ragionano esattamente all’opposto. E da questi angoli visuali distorti, uguali e contrari, gli uni e gli altri rileggono l’intera storia italiana, da Tangentopoli ai giorni nostri. I Giustizialisti pensano che i mali della politica di oggi siano figli della Restaurazione della Casta successiva a Mani Pulite: e dunque, esultando sempre per le condanne e mai per le assoluzioni, considerano le parole di Di Maio un infame tradimento della “causa”. I Garantisti “incassano” invece la sua abiura e la usano come clava per bastonare quel che resta del Pool di Milano, a partire da Piercamillo Davigo, e per distruggere Mani Pulite e “revisionare” tutto quel che ne è seguito (compreso il Ventennio Berlusconiano) non solo sul piano giudiziario, ma anche morale e culturale. Come se quella maxi-inchiesta (che portò a ben 1.300 condanne definitive) fosse solo un “tentato golpe” e/o un grumo scandaloso di errori e persecuzioni giudiziarie, di carcerazioni preventive e confessioni estorte, e non avesse comunque smascherato un gigantesco apparato politico-affaristico corruttivo che secondo i calcoli di Mario Deaglio costò agli italiani 10 mila miliardi di vecchie lire e 150-250 mila miliardi di debito pubblico. Come se Berlusconi non si fosse salvato in nove processi grazie alle leggi ad personam (dalle rogatorie alla ex-Cirielli, dal lodo Schifani ai condoni fiscali). E come se, per estensione, tutti gli indagati gli inquisiti i condannati degli anni a venire siano stati, per principio, sempre perseguitati o martiri della malagiustizia.
Ora, con questo spirito è impossibile qualunque ipotesi di riforma del nostro ordinamento penale e civile, che tuttavia il Recovery ci impone pena la perdita dei 200 miliardi di fondi europei. Ma proprio per questo la conversione di Di Maio, per quanto tardiva, è promettente. Lo è quasi a prescindere dal merito (sull’assoluzione di Uggetti in appello “perché il fatto non sussiste” converrà davvero aspettare le motivazioni). Qui conta soprattutto il “metodo”. Autodenunciarsi e denunciare il Movimento per “l’uso della gogna” come strumento di campagna elettorale, e per “l’imbarbarimento del dibattito” portato avanti con modalità “grottesche e disdicevoli”. Disconoscere gli “scandali da prima pagina” finiti nel nulla, da Tempa Rossa al caso Eni, e poi riconoscere “il diritto delle persone di vedere rispettata la propria dignità fino a sentenza definitiva e anche successivamente”. Qui non c’è la banale ammissione di un errore politico. C’è piuttosto la negazione di un principio costitutivo dei Cinque Stelle (le manette come forma di selezione delle classi dirigenti) e l’accettazione del principio costituzionale della presunzione d’innocenza (e della weberiana “politica come professione”).
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