Salviamo chi ci aiuta a Kabul
di Paolo Mieli
Colpisce la scarsa attenzione con cui i media occidentali seguono l’evacuazione militare dell’Afghanistan che dovrebbe essere portata a conclusione entro il prossimo 11 settembre. I soldati che adesso lasciano Kabul fanno parte di quel contingente che fu mandato lì vent’anni fa, a ridosso dell’attentato alle Torri Gemelle. Godevano dell’approvazione delle Nazioni Unite; la loro missione era quella di debellare Al Qaeda, sconfiggere i talebani e assicurare al Paese la libertà politica assieme alle facoltà d’esercizio dei diritti fondamentali. Le cose purtroppo non sono andate come era negli auspici dell’Onu: nessuno di quegli obiettivi è stato raggiunto, la guerra l’abbiamo perduta e adesso dobbiamo prepararci ad assistere a scene consuete in questo genere di frangenti. Tutti coloro che in qualsiasi modo hanno aiutato il regime dei «liberatori» avranno paura di subire ritorsioni e si accalcheranno ai cancelli delle nostre ambasciate per implorarci di non essere abbandonati nelle grinfie dei vincitori. Come accadde nel 1783 nelle colonie americane (quella volta furono l’amministrazione e i soldati britannici a doversene andare), nel 1962 allorché i francesi dovettero lasciare l’Algeria, nel 1975 quando gli Stati Uniti furono costretti ad abbandonare il Vietnam, lugubre sarà l’umore di quelli che abbandoneranno il campo.
Ma ancor più cupo sarà il destino di quelli che avevano sperato nei «liberatori», uscirono allo scoperto per dar loro una mano e adesso dovranno subire il trattamento che in casi del genere viene riservato ai «collaborazionisti». Fiorirà — come accadde a Saigon nella seconda metà degli anni Settanta — una letteratura sugli illeciti amministrativi compiuti negli ultimi due decenni da alcuni cittadini afghani in combutta con gli occupanti. Corruzione — peraltro già denunciata e documentata dai media occidentali — che però adesso fungerà da pretesto per punire chiunque non vorrà sottomettersi al regime dei nuovi talebani. A cominciare dalle donne.
Già si legge di alcune di loro che sono state percosse a Herat sulla pubblica piazza. Di altre lapidate. Dell’auto di una dottoressa saltata in aria a Jalalabad. Di due ragazze che lavoravano per una tv locale assassinate a colpi di pistola. E di un’infinità di altri casi del genere. Le donne sono e ancor più saranno le prime a dover pagare un prezzo altissimo per aver scelto non già di togliersi il velo — in molte lo hanno tenuto — ma per la colpa di aver vissuto come persone libere. E di aver cresciuto una generazione abituata a vivere con le libertà che si addicono ai Paesi non dispotici. In un’intervista, su queste pagine, ad Andrea Nicastro, Mohammed Naim — portavoce dei talebani al tavolo dei negoziati di Doha — ha assicurato che non ci saranno problemi del genere dal momento che «l’Islam garantisce alle donne il diritto di studio e lavoro». Ma poi ha aggiunto che «naturalmente» questi diritti dovranno essere esercitati «alla luce delle tradizioni afghane». Speriamo di sbagliare, ma a noi sembra che questa coda contenga una minaccia.
Pages: 1 2