La Grande Riforma istituzionale sta avvenendo sotto gli occhi di tutti. Ma non suscita reazioni né dibattito
di Marco Damilano
Il carpe diem di Mario Draghi è arrivato il primo giugno, al termine della visita agli impianti di Fiorano Modenese, nel distretto delle ceramiche di Sassuolo. «Prendiamo il gusto delle cose presenti», ha detto il presidente del Consiglio. «Oggi godiamoci il presente», ha ripetuto concludendo un discorso tutto dedicato al futuro immediato: l’esigenza di «sprigionare le energie», il timore che la ripresa «non sia duratura» e che «il sentiero della crescita sia modesto».
Il
presente del giugno italiano, tra le riaperture, la fine dell’anno
scolastico, l’inizio dell’estate, l’invasione dei vaccini in arrivo
prevista dal generale Francesco Paolo Figliuolo, è uno stato di sospesa
felicità che giunge dopo il buio della pandemia e che precede le
tensioni sociali dei mesi prossimi. Sono anche le ore liete del potere
di Draghi, esercitato dall’ex presidente della Bce senza incontrare
ostacoli di sorta. Le nomine ai servizi (Elisabetta Belloni), Cdp (Dario
Scannapieco), Ferrovie e quelle che verranno (Rai) ridisegnano
l’assetto degli apparati dello Stato e dell’intervento pubblico. E anticipano la Grande Riforma istituzionale che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti, senza suscitare reazioni né dibattito.
Silvio
Berlusconi si riteneva l’artefice del nuovo miracolo italiano, per
Matteo Renzi ogni provvedimento preso da lui e dal suo governo non aveva
precedenti, Luigi Di Maio da un balcone di Palazzo Chigi urlò di aver
abolito la povertà e perfino l’avvocato Giuseppe Conte rivelò al mondo
di voler instaurare un «nuovo umanesimo», nientemeno, e dichiarò di
guidare i «ministri migliori del mondo». «Il merito non è del governo»,
sussurra invece Draghi riferendosi ai primi segnali di ripresa
economica. Uno stile comunicativo che non ama sfoggiare conquiste,
semmai ostenta understatement. Il potere, quello vero, viene da dire,
non ha bisogno di apparenza, sfugge alla luce dei riflettori, non si
vanta, non si esalta, la riservatezza è la sua forma e la sua sostanza. E
non ha bisogno del consenso, degli spin doctor e dei propagandisti
necessari per allargare l’elettorato. La Grande Riforma sta avvenendo
senza passare dal voto.
Per questo il governo Draghi non ha nessuna intenzione di impegnarsi sul fronte del cambiamento della governance politica, come gli ha chiesto di fare il segretario del Pd Enrico Letta (L’Espresso, 30 maggio). La sua stessa esistenza allude a un mutamento profondo delle regole di fatto, non di diritto, come sempre è accaduto nella tradizione costituzionale italiana. Lo Statuto albertino raggiunse il secolo di vita, tra il 1848 e il 1948, restando in vigore dal piccolo regno sabaudo all’unificazione della penisola al suffragio universale maschile, fino a essere stravolto durante il ventennio fascista. La Costituzione repubblicana del 1948 ha resistito all’onda d’urto della delegittimazione della classe politica, delle commissioni bicamerali e di un paio di referendum che miravano a riscriverne la seconda parte (riforma Berlusconi nel 2006, Matteo Renzi nel 2016). Ma ora avanza un cambiamento di Costituzione materiale di cui conviene almeno provare a discutere.
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