La Grande Riforma istituzionale sta avvenendo sotto gli occhi di tutti. Ma non suscita reazioni né dibattito


Se tra otto mesi il presidente del Consiglio dovesse cambiare Palazzo e salire al Quirinale, non sarebbe soltanto l’avvicendamento tra le figure che stanno guidando il Paese come se fossero due consoli, Sergio Mattarella e Mario Draghi. Ma l’inizio di una trasformazione della Repubblica verso il semi-presidenzialismo, come accadde in Francia sessant’anni fa. Mario Draghi non è Charles De Gaulle e non ha nessuna ambizione cesarista. Ma la modalità della sua chiamata alla guida del governo, un passo prima del disastro, con l’impossibilità di formare una maggioranza parlamentare, i centinaia di morti di Covid-19 al giorno, il rischio di perdere i fondi europei del Recovery Fund (sembra archeologia, invece era la situazione di quattro mesi fa), l’unità nazionale che sostiene l’azione del governo e la prospettiva di trasferirsi al Quirinale, unico premier nella storia a fare il passaggio diretto da Palazzo Chigi, definiscono lo stato di eccezione in cui avviene la svolta nella Costituzione materiale.


Draghi al Quirinale sarebbe qualcosa di più di un custode del proseguimento del piano di riforme che andrà realizzato in anni di lavoro, e non in pochi mesi. Con lui sul Colle il presidente della Repubblica diventerebbe il garante dell’indirizzo politico e il presidente del Consiglio assumerebbe una connotazione puramente esecutiva di questo indirizzo, come avviene nella Francia semi-presidenziale nel bilanciamento dei poteri tra l’inquilino dell’Eliseo e il primo ministro da lui nominato. È quanto hanno immaginato alcuni presidenti dei primi decenni repubblicani, Giovanni Gronchi, Antonio Segni, forse Giuseppe Saragat, negli anni in cui i francesi votavano per la Costituzione gollista, ma furono bloccati dal sistema dei partiti che restava forte e che non tollerava le velleità presidenzialiste degli uomini del Colle. Nei libri di memorie e in qualche stanza del Quirinale ancora riecheggiano gli scontri epici tra i presidenti cattolici e i capi democristiani. In anni più recenti, da Oscar Luigi Scalfaro a Giorgio Napolitano fino a Mattarella, i presidenti sono stati chiamati a svolgere un ruolo di supplenza, nel disfacimento del sistema, ma senza superare i confini dei loro poteri stabiliti dalla Costituzione.


Draghi al Quirinale, invece, sarebbe una riforma di fatto. Se la legislatura dovesse proseguire fino alla scadenza naturale del 2023, presidente del Consiglio potrebbe diventare l’attuale ministro dell’Economia Daniele Franco o la ministra della Giustizia Marta Cartabia, per dire di due personalità che godono della totale stima e fiducia dell’attuale premier. Se la legislatura dovesse interrompersi per voto anticipato, il presidente potrebbe invece pilotare dall’alto del Colle la probabile maggioranza di centro-destra formata dalla coppia Salvini-Meloni che mette insieme oltre il quaranta per cento dell’elettorato, cui va aggiunto almeno un dieci per cento disposto a votare per i frammenti della galassia ex Movimento 5 Stelle. Il populismo non è finito, ma è in evoluzione. E Draghi al Quirinale sarebbe il regista di questo passaggio, ma anche il freno per qualunque avventura.


Non è uno scenario impossibile. In queste settimane l’ipotesi che Mattarella possa essere votato per un secondo mandato confligge con la tenace volontà del presidente di fermarsi alla scadenza naturale dei sette anni. In più, per bloccare un eventuale bis di Mattarella basta il no anche di uno solo dei partiti che detengono la golden share parlamentare, per esempio la Lega. Non è pensabile che Mattarella diventi un presidente di parte e sia costretto a cercarsi i voti in un Parlamento che sta sempre più volgendo al suq, con duecento tra deputati e senatori che hanno già cambiato casacca.


Resta in piedi, perciò, la candidatura di Draghi. Che nel frattempo è sempre meno un premier tecnico e sempre più politico. La sua ascesa al Quirinale non significherebbe una dignitosa neutralità, un rassicurante notabilato, la dorata conclusione di una carriera straordinaria, ma al contrario la coincidenza tra potere formale e potere sostanziale, come mai accaduto nella storia repubblicana.


Tutto questo avviene nella piena legalità costituzionale, in un momento di grande cambiamento mondiale. La presidenza americana di Joe Biden continua a macinare avversari: non si capisce altrimenti la crisi dell’inaffondabile premier israeliano Benjamin Netanyahu.


La svolta è possibile, se non prevedibile, ma non suscita alcun dibattito nel Paese. Nel gusto delle cose presenti manca la ripresa della politica e della fisiologia democratica. I territori sono assenti, i partiti sono inceppati nella produzione di classe dirigente, faticano a selezionare i candidati sindaci, figuriamoci i candidati per la presidenza della Repubblica, tutto è centralizzato in pochissime mani. L’opposto di quanto avvenne esattamente trent’anni fa, tra il 9 e il 10 giugno 1991, quando ventisette milioni di italiani rifiutarono di andare al mare, come aveva suggerito di fare il leader socialista Bettino Craxi, e andarono invece a votare per un referendum in apparenza insignificante, l’abolizione della preferenza multipla sulla scheda elettorale della Camera. Fu la prima vittoria dei referendari del deputato democristiano Mario Segni, ma anche il segno di un paese che voleva cambiare le regole e che non delegava le riforme alla classe politica. Il tentativo di portare il sistema politico nell’era del maggioritario: schieramenti alternativi, collegi uninominali, elezione diretta del sindaco.

Il bilancio è devastante: è rinato il trasformismo, i partiti si sono dissolti, ogni cittadino esprime un voto al buio, senza nessuna certezza sulla sua destinazione. E per le candidature a sindaco nelle grandi città si è dovuto ricorrere in molti casi alle terze, quarte e quinte file. Gli italiani si stanno preparando tutti per andare al mare, è la reazione più sana e naturale dopo sedici mesi di pandemia, oggi l’appello di Craxi avrebbe successo. Attenzione però alle grandi riforme che entrano in vigore senza discussione e partecipazione.

L’ESPRESSO

Rating 3.00 out of 5

Pages: 1 2


No Comments so far.

Leave a Reply

Marquee Powered By Know How Media.