Perché sul fine vita deve decidere il popolo

Vladimiro Zagrebelsky

La volontà di una persona di porre fine alla propria vita e di non provvedervi da sola con il suicidio, ma di chiedere l’intervento e l’aiuto di altre persone era contrastata dal testo originario del codice penale (1930) con due diverse ipotesi di reato. Si tratta da un lato del delitto di omicidio del consenziente e dall’altro di quello di aiuto al suicidio. La portata di questa sola seconda ipotesi è stata ristretta dalla Corte costituzionale con la sentenza del 2019, che ha escluso la punibilità di chi aiuta altri a morire, quando si tratti di persona capace di prendere decisioni libere e consapevoli, affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, e tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale. In questo modo la Corte ha considerato la condizione in cui si trovava Fabiano Antoniani (Dj Fabo), che nel 2017 Marco Cappato aveva accompagnato a morire in Svizzera.

La sentenza è intervenuta dopo che, un anno prima, la Corte aveva avvisato il Parlamento che la norma, così come era, contrastava il principio costituzionale di ragionevolezza, alla luce della legislazione che riconosce il diritto a rifiutare le cure, anche quando ne derivi la morte del paziente, in vicende su cui incidono valori quali la dignità della persona e il suo diritto alla autodeterminazione. Il Parlamento non era stato in grado di modificare la norma incriminatrice eliminandone la incostituzionalità. Ed era stato quindi necessario l’intervento della Corte costituzionale, la quale aveva sì dichiarato la parziale incostituzionalità della norma, ma aveva anche segnalato la necessità di un intervento legislativo per disciplinare i tanti aspetti della materia che esulano dall’area di competenza della Corte. Anche questa volta, dopo quasi due anni, il Parlamento non ha saputo svolgere il suo dovere di legislatore.

A causa dell’assenza del Parlamento, le vicende gravi e dolorose in cui persone sono portate a chiedere di morire piuttosto che sopportare la vita cui sono costrette, sono da un lato oggetto del nuovo testo della legge penale derivante dalla sentenza della Corte costituzionale, ma dall’altro praticamente non risolvibili secondo quanto consentito dalla legge. Gli ospedali pubblici cui quei pazienti si rivolgono, come indicato dalla Corte costituzionale, per ottenere prima di tutto che venga accertato che il loro stato corrisponde a quello che la Corte costituzionale ha considerato, per stabilire la non punibilità di chi aiuti quelle persone a suicidarsi, non sono disposti a provvedere. Essi avanzano argomenti che si fondano sulla mancanza della legge specifica che ne preveda le modalità. Nemmeno i governi che si sono succeduti hanno provveduto dando disposizioni esecutive della sentenza della Corte costituzionale. I giudici cui quelle persone si rivolgono hanno fino ad ora dato risposte diverse. L’incertezza è grande e aggiunge pena a pena. È vero che Marco Cappato è stato assolto nel processo milanese cui la sentenza della Corte costituzionale si è riferita e anche in altri processi successivi, ma Parlamento e governo, con la loro inerzia di fatto mantengono la incostituzionalità che la Corte costituzionale ha dichiarato. È in questa situazione di blocco del funzionamento istituzionale del sistema democratico di garanzia dei diritti fondamentali delle persone, che la Associazione Luca Coscioni, proseguendo l’azione di resistenza civile di Marco Cappato, ha lanciato la raccolta delle firme necessarie per un referendum popolare, che, intervenendo sul codice penale risolva le questioni che sono ancora aperte.

Perché la sentenza della Corte costituzionale, pur salutata come un passo avanti verso il rispetto dell’autonomia delle persone, ha ancora limiti importanti, che derivano anche dal fatto che essa si è riferita alla sola ipotesi di suicidio assistito, senza considerare quella confinante dell’omicidio del consenziente. La differenza può essere marginale e irrilevante quanto ai valori e libertà in gioco, legata come è a dettagli esecutivi: l’aiuto al suicidio, diversamente dall’omicidio del consenziente, richiede che l’atto finale (come bere il veleno mortale, schiacciare con i denti il pulsante che attiva l’introduzione della sostanza venefica) venga compiuto da chi vuole morire e non dal terzo che lo assiste. Ma quando è accertata la consapevolezza e la libertà di chi ha deciso di morire, la differenza non ha rilievo rispetto alla autonomia della persona nel decidere come e quando morire. Vi è una forte dose di ipocrisia nel distinguere le due ipotesi.

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