Vita da Millennial

«E mi sgridano pure. Mi chiedono perché non me ne sto buona a casa mia, o perché – per esempio – non m’intrufolo in una qualche chiesa o in biblioteca. Non è però quella la solitudine che cerco: non mi serve una barriera nei confronti del resto del mondo, credo che per stare bene con se stessi serva anche il contesto giusto, il clima giusto. La storia che percepisco dentro a quelle case, le famiglie che immagino aver vissuto quelle stanze, i dialoghi che mi pare di ascoltare uscire da quelle finestre, mi riempiono di emozione. Mi danno pace, placano il mio caos interiore, sfiorano corde che neppure io sapevo di avere». “Vendesi”, “Pericolo di crollo”, “Proprietà privata”, “Attenti al cane”, “Gabriella, ti amo. Nonostante tutto”: nel suo vagare sulle tracce della solitudine, Alice con la macchina fotografica cattura cartelli e scritti, si muove con attenzione tra ortiche, calcinacci e cancelli arrugginiti. Non forza mai porte e finestre, se trova qualcosa di aperto – e valuta che non ci siano rischi reali – entra con curiosità. Oppure si sistema sotto a un porticato, nei pressi di un pozzo o sui gradini del rudere. Attorno a lei quasi sempre campi coltivati che seguono il ritmo delle stagioni, alberi da frutto, strade sterrate e tutte quelle atmosfere che per un attimo ti fanno essere una comparsa in un film di Pupi Avati. «La solitudine è una parola che spaventa la mia generazione. Spaventa perché è una condizione che equivale a uno stigma: se sei solo, se vuoi stare solo, significa che non sei adatto alla società, che sei out, che sei asociale. Mentre nessuno ha il coraggio di dire – e di dirsi – che saper godere della solitudine è un rigenerante privilegio».

LA STAMPA

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