Roma, l’Italia delle cento città lontana dalla sua capitale
di Giovanni Belardelli
Poche cose indicano la marginalità della capitale nella vita politica del nostro Paese come il modo, insieme faticoso e dimesso, attraverso il quale il centrodestra e il Pd hanno definito i loro rispettivi candidati a sindaco della città: nel primo caso approdando, svanite candidature di rilievo nazionale, a una figura certo di non grande notorietà, Enrico Michetti; nel secondo scegliendo Roberto Gualtieri, un ex ministro che però, venendo dopo la rinuncia di Zingaretti, rischia di apparire come una seconda scelta (un’impressione che le primarie, venute a confermare una decisione di fatto già presa, non hanno potuto cancellare). Ma dietro questi piccoli episodi sta una questione più generale e rilevante: da molto tempo Roma non è sentita dal Paese come la propria capitale. Si tratta di un sentimento antico, spesso oscurato dalle diverse configurazioni assunte nel corso della nostra storia dal mito di Roma e dalla esaltazione magniloquente che a quel mito si accompagnava, da Mazzini a Mussolini (fatte ovviamente le debite differenze).
Senza dubbio un contributo a far sì che Roma non venisse sentita come la capitale lo ha sempre dato l’eterna rivale, Milano. Una città, quest’ultima, che non è stata mai davvero in grado di soppiantare Roma come centro del Paese, anche per la ritrosia delle sue élites ad assumere una leadership nazionale. Ma che comunque è stata protagonista di un dualismo che ha sempre proiettato un’ombra sulla capitale.
Ancora di più ha contato, nell’alimentare lo scarso amore degli italiani per Roma, la diffusa sensazione che la nostra vera identità collettiva si trovi a considerevole distanza dai colli capitolini: cioè in provincia, per meglio dire nelle tante province italiane, nelle reti orizzontali di condivisione, solidarietà e scambio (economico, culturale, sociale) di un’Italia lontana da Roma e anche per questo più vitale e dinamica rispetto al centro ufficiale del Paese. È questa l’immagine dell’Italia rappresentata tante volte dal Censis, ma anche quella delle «cento città» descritta molto prima da Carlo Cattaneo. Un’Italia che non ha, ma in fondo neppure vorrebbe avere, una capitale così simbolicamente e realmente centrale come è Parigi per i francesi.
In tutto questo affiorano anche umori antichi della nostra cultura, pervasa in alcuni suoi rappresentanti da un sentimento di estraneità al quale dava voce per esempio Matilde Serao, trent’anni dopo Porta Pia, quando negava che Roma potesse essere la capitale d’Italia e aggiungeva di preferirvi senz’altro Firenze, più adatta a quel ruolo per tradizioni letterarie, storia, posizione geografica. La scrittrice coglieva in fondo un problema reale: la difficoltà, per una città dal passato così ingombrante e universale come Roma, di mettersi a disposizione di uno Stato nazionale. Fatto sta che quel giudizio negativo venne ripetuto altre volte, ricorrendo a un’immagine molto forte, quella della città-cloaca, capace di convogliare ogni sozzura.
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