Le Immortali
di Massimo Gramellini
Raffaella Carrà era tante cose, troppe per un articolo smilzo come questo. Ma per le generazioni cresciute con «Canzonissima» e «Milleluci» è stata anzitutto la scoperta dell’eros. Un eros bonario: intriso di mistero, ma privo di perversione. Quelle gonne lunghe, gettate via a metà del balletto per scoprire gambe che in tv sembravano infinite. Il caschetto biondo, dimenato davanti agli occhi come un sipario instabile. Il mantello stellato di Maga Maghella. Le braccia aperte in posture benedicenti da madonna. E naturalmente l’ombelico: il primo, il definitivo. La Carrà era la personificazione della femminilità e piaceva agli uomini, alle donne, ai gay e ai bambini, soprattutto agli orfani: in lei, che non aveva figli, vedevano un surrogato accogliente della madre. Quando lo raccontai in un libro, mi mandò un biglietto: «Le sere in cui eri piccolo e solo, avrei voluto uscire dal televisore per abbracciarti». E di sicuro lo avrebbe fatto, perché il suo talento era guardare la telecamera come se fosse sempre sul punto di attraversare lo schermo per venirsi a sedere sul divano accanto a ciascuno di noi. Senza carrambate, con la forza tranquilla della consuetudine.
Raramente la morte di un personaggio pubblico aveva prodotto una sensazione così lancinante di perdita e al tempo stesso di incredulità. Forse la Carrà ci è stata davvero seduta accanto per tutta la vita. E forse è ancora lì, con l’ombelico e il resto, perché le maghe come lei non muoiono fino a quando restiamo vivi noi.
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