Il sangue del G8 e la strategia della tensione

Poi arriva il resto, il corteo dei disobbedienti bloccato in via Tolemaide da una colonna che ha sbagliato strada, le cariche, i lacrimogeni, le manganellate da una parte, le sprangate da quell’altra, pezzi di ogni cosa che volano in tutte e due le direzioni, il caos, la guerra, tutto quello che in un’operazione di ordine pubblico non dovrebbe mai accadere. Fino al morto. Il Defender dei carabinieri che si blocca contro un muro, Carlo Giuliani con l’estintore, Mario Placanica che spara e un ragazzo che muore. Stesso copione il giorno dopo, sabato 21 luglio, black block, cariche e massacro indiscriminato, senza il morto, per fortuna, ma con altri feriti che si aggiungono ai milleduecento del bilancio finale, tra cui duecentosettantarè tra le forze dell’ordine.

Un disastro. Ecco, la tensione che cresce, gli scontri, perfino le bombe, un intero movimento annegato nel sangue, perché io me la ricordo la voglia di manifestare dopo, la rabbia, ma anche la paura, e se poi finisce come a Genova, non è il momento giusto, aspettiamo un po’ dai. Mi sbaglierò ma a me sembra che l’abbiamo già vista, questa cosa qui, tante volte e tanti anni prima, almeno dal 1969.

Ha un nome, e per definirla ci sono tre parole, solo tre parole, che non sono sole, cuore, amore, come cantava Valeria Rossi in quei giorni, ma strategia della tensione. Voluta, costruita, cercata da qualcuno, subita da tutti gli altri, da una parte e dall’altra. Perché pensare che quel disastro sia avvenuto soltanto per colpa di un gruppetto di cattivi ragazzi vestiti di nero e degli errori di dirigenti e operatori mal preparati a gestire l’ordine pubblico, a me, e non solo a me, non basta.

Non basta, per esempio, a spiegare una cosa come la scuola Diaz, con la gente che lavora e dorme massacrata in quel modo da un’irruzione selvaggia della polizia la notte di sabato 21. Macelleria messicana, l’hanno chiamata, per evocare i comportamenti feroci delle polizie nelle dittature sudamericane, richiamate esplicitamente dagli agenti che fanno un’altra delle cose «inspiegabili» di quei giorni: le torture -non c’è altro modo per definirle- operate sui fermati raccolti nella caserma Bolzaneto. Ci sono anche i depistaggi, come le false molotov costruite apposta per incastrare, a posteriori, quelli della Diaz.

Roba antica, roba di una volta, ma sempre uguale. Cosa ci resta di quei bruttissimi giorni della fine di luglio del 2001, a parte le ferite e i traumi di chi li subiti direttamente sulla propria pelle? Intanto alcune verità. A differenza di tanti oscuri avvenimenti del passato, di cui c’erano soltanto testimonianze e qualche fotografia -quando andava bene- a Genova ci sono state decine e decine, di più, centinaia di videocamere e cellulari, non ancora così smart ma abbastanza efficienti, che hanno ripreso ogni singolo istante di quello che è accaduto.

Non l’avevamo visto nei mesi successivi, perché molte televisioni trasmettevano soltanto black block, vetri rotti e Carlo Giuliani con l’estintore, ma qualche tempo dopo tutto quel sangue è venuto fuori, prima sulle piattaforme indipendenti e poi, grazie ai processi, dovunque. Soltanto per fare un esempio, c’era un ragazzo fermato quel 21 luglio con l’accusa di devastazioni e resistenza all’arresto che grazie alle immagini raccolte ha potuto documentare tutta un’altra storia: se ne stava buono in un garage ad aspettare che finisse la bufera quando la polizia è arrivata, l’ha tirato fuori, l’ha caricato di botte e l’ha portato alla Bolzaneto.

Verità, non solo storiche, ma anche giudiziarie. Perché al di là dei tentativi di revisionismo negazionista che ci sono stati e ci saranno, abbiamo i processi, che per lo meno hanno accertato i fatti e dimostrato senza ombra di dubbio da che parte stanno le vittime di questa storia. I duecentosettantatrè appartenenti alle forze dell’ordine feriti, certo, ma soprattutto quella gente picchiata, gasata, fermata, terrorizzata e torturata. Che non era un’orda di terroristi ma persone che volevano manifestare e partecipare.

Poi, secondo me, restano anche un paio di ritardi. Ritardi lunghi: una ventina d’anni. Uno riguarda le forze dell’ordine, che dopo le oscurità dei cosiddetti anni di piombo e dello stragismo avevano impiegato tanto tempo a configurarsi come gli operatori della sicurezza, e che invece, di colpo, tornano allora ad essere gli sbirri dei momenti più oscuri della nostra storia. Io lo so, lo sappiamo, che non sono così, ma sappiamo anche che qualcuno sì, e a Genova, in quelle giornate, ci hanno ricordato che esistono, eccome. L’operatrice del 113 che dopo la morte di Giuliani dice uno a zero per noi, o il funzionario che in una intervista si vanta con orgoglio di essere riuscito a strappare uno striscione ai dimostranti, tipo la bandiera del nemico in una battaglia.

Peggio ancora, l’impressione che un certo cordone ombelicale, che dal regime fascista ha attraversato tanti misteri e segreti italiani, non sia mai stato reciso. Ecco, un fenomeno di quelle proporzioni, così esteso e così violento, allora fece venire il dubbio che non fosse soltanto il frutto di elementi deviati, mele marce -una volta avremmo detto semplicemente fascisti- ma piuttosto organico alle nostre forze dell’ordine. Io lo so che non è così, ma un vero dibattito che andasse oltre prese di posizione ed etichette politiche, una discussione pubblica, anche tecnica, mi sembra non ci sia stata. L’hanno fatta i processi, ma non è la stessa cosa.

L’altro ritardo riguarda proprio le tematiche che quel G8 voleva affrontare, da una parte e dall’altra. Il mondo di allora era quello del neoliberismo economico, della democrazia esportata con la guerra, della lotta al terrore che sacrificava la libertà alla sicurezza, di un certo modo di concepire il rapporto con la terra. Il mondo di W. Bush e, da noi, di Berlusconi. C’era anche un mondo diverso che ha continuato ad esserci, certo, ma che per un po’ di tempo, un bel po’, è stato costretto prima a difendersi dall’accusa di essere un’orda e poi a chiedere giustizia, e in parte si è perso.

E questa cosa qui, sarò io che sono abituato a pensare male, ha un nome, e a definirla bastano tre parole. Solo tre parole.

LA STAMPA

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