Il “momento” che l’Europa sta perdendo Il “momento” che l’Europa sta perdendo

Ma non c’è solo un deficit di politica estera. Dall’Ecofin informale di Lubiana arrivano segnali inquietanti anche sulla politica economica. Combattiamo da un anno e mezzo la buona battaglia contro un virus che ha distrutto 4,6 milioni di vite e devastato famiglie e imprese. Restiamo sempre in trincea, a fronteggiare non solo l’agente patogeno ma anche il fattore criminogeno (le brigate violente No Vax e No Pass). L’emisfero Nord è ancora lontano dall’immunità di gregge e l’emisfero Sud ancora privo di una copertura vaccinale minima. Insomma, siamo immersi fino al collo in quello “stato di emergenza” che esalta i virologi e allarma i filosofi. Nonostante questo, l’Unione già ricomincia a dividersi tra formiche teutoniche e cicale latine, ordoliberisti luterani e anarco-cattolici. Il nodo è la revisione del Patto di stabilità, tuttora sospeso, e poi l’allentamento temporaneo delle restrizioni agli aiuti di Stato e la maggior flessibilità nell’utilizzo dei fondi di coesione. È chiaro che qui c’è una seria criticità: l’indebitamento netto, che dall’inizio della pandemia è cresciuto in Europa del 6,6 per cento del Pil e ormai sfiora i 12,3 trilioni di euro. Pesano ovviamente le manovre anti-Covid, che ai governi del pianeta sono costate 16 trilioni di dollari tra aumenti di spesa, riduzioni di imposta e garanzie sui prestiti. Ma il risultato è che nella Ue il debito medio raggiunge ormai il 100 per cento del Pil, e in sette Paesi lo supera anche di parecchio (l’Italia è a quota 160 per cento).

Paolo Gentiloni, opportunamente, suggerisce di sciogliere il nodo con un approccio dinamico. Non si tratta di riproporre meccanicamente la trita concione sui parametri, che Romano Prodi definiva «stupidi» già quindici anni fa, ma di inquadrare il dibattito nel contesto pandemico, «mentre siamo chiamati a investire denaro fresco nella transizione digitale e ambientale». Detta altrimenti: restare abbarbicati al tetto di un debito al 60 per cento del Pil, già fissato dal Trattato, e poi imporre un rientro di un ventesimo all’anno per i Paesi che sforano, fa semplicemente ridere (oppure piangere, secondo i punti di vista). Ma otto Paesi nordici, tra cui il trio frugale Olanda-Austria-Finlandia, mettono già le mani avanti con una lettera comune che inopinatamente firma anche il ministro tedesco Olaf Scholz. E il falco Dombrovskis, vicepresidente della Commissione, gli dà ragione in base al principio «serve una regola di riduzione del debito credibile e che funzioni per tutti gli Stati membri».

Diciamolo: questa recita a soggetto, sotto il vulcano che erutta, è piuttosto penosa. Nessuno chiede “licenza di spendere” e rimborsi bruxellesi a piè di lista (oltre tutto, come insegnava un padre fondatore dell’Europa come Carlo Azeglio Ciampi, non può mai essere l’Italia a chiedere favori). Nessuno sottovaluta il tema della sostenibilità del debito, anche in funzione del graduale ritorno a una politica monetaria “normale” da parte della Bce. Ma che adesso, a guerra in corso, l’Unione si rimetta litigare sui decimali è inaccettabile. Pensiamo all’ingresso della lira nella banda stretta dello Sme, a fine anni ’80. Oppure all’ingresso nell’euro insieme al gruppo di testa, a fine anni ’90. Allo stesso modo, oggi, il Next Generation Ue è un chiodo piantato su una montagna. Possiamo usarlo per impiccarci, come abbiamo fatto dopo la crisi finanziaria del 2007-2008. Oppure per salire più in alto, come sarebbe necessario adesso. Per raggiungere la piena e definitiva condivisione del debito, creando ed emettendo quegli eurobond di cui parlava già trent’anni fa un altro padre fondatore, Jacques Delors.

Di questo, ora, dovrebbe discutere un’élite europea all’altezza della sfida. E non lo dico per nascondere il caso Italia, dove i partiti sognano di usare i fondi del Recovery per finanziare non investimenti ma sussidi, bonus e Quota 100 (e dove anche per questo sarebbe utile che Draghi rimanesse a Palazzo Chigi fino al termine della legislatura). Lo dico perché prendo in parola Bruno Le Maire, il ministro delle Finanze di Macron, che a Cernobbio ha detto questo: «Cosa vogliamo essere? Qual è l’approccio strategico con il quale vogliamo guidare i nostri popoli? Io rifiuto l’idea che l’Europa sia solo un mercato comune. Noi siamo molto più di questo. Noi siamo un progetto politico. Noi siamo un sogno politico. L’Europa si batte per la pace e la solidarietà. L’Europa non si batte per le democrazie illiberali: le democrazie sono liberali, o non sono…». Ecco cos’è il “Momento Europa”. Se ci sfugge, ancora una volta, non saremo.

LA STAMPA

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