11 settembre, la strage delle illusioni
MASSIMO GIANNINI
L’11 settembre non perdemmo solo la nostra innocenza. Perdemmo anche la nostra libertà. Per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale, un’altra guerra che non avevamo dichiarato ci mise di fronte alla relatività delle nostre culture e alla fragilità delle nostre democrazie. Con fatica, le avevamo costruite sulla fiducia: nel progresso, nella partecipazione, nella tolleranza, nella libertà, nei diritti.
Noi credevamo. Credevamo che questo deposito di valori, che abbiamo imparato a chiamare Occidente, fosse un modello acquisito per noi e attrattivo per tutti. Credevamo che le fondamenta di ogni democrazia liberale, cioè le costituzioni, lo Stato laico e la separazione dei poteri, i Parlamenti e l’alleanza tra capitale e lavoro, potessero reggere ogni urto della Storia. Credevamo che la caduta del Muro avesse regolato per sempre e a nostro vantaggio il conto tra l’Est e l’Ovest. Credevamo che le nostre società opulente avessero secolarizzato e disarmato le Chiese millenarie e le ideologie novecentesche.
Ci sbagliavamo. Dopo l’89 la Storia non era finita. Se un Dio era morto, era solo il nostro: quello degli altri era più vivo che mai, e incubava rabbia, predicava vendetta. I due Boeing che tagliarono le Torri Gemelle come il coltello nel burro spezzarono la Grande Illusione. Imparammo allora che se Fukuyama aveva torto, Huntington aveva ragione. Quell’attacco fu l’epifania dello «scontro di civiltà». Facemmo la «guerra giusta» in Afghanistan, poi la sciagurata «Coalition of the Willing» in Iraq. Obama annientò Bin Laden in Pakistan. Ma la testa del serpente già ricresceva altrove. A Raqqa, a Falluja. Arrivò l’Isis. Jihadisti «fai-da-te» fecero scorrere fiumi di sangue per le capitali europee. Atocha, il Tube, Charlie Ebdo, il Bataclan, la Promenade des Anglais, le Ramblas. Ci hanno colpito ovunque. Non più solo cellule addestrate nei deserti siriani o nei campi ceceni, ma giovani immigrati musulmani di seconda generazione, emarginati nelle banlieue e radicalizzati sul Web. Pronti a «morire per Allah». Oggi, a vent’anni di distanza, un destino si compie. E il cerchio si chiude dove tutto era cominciato. In Afghanistan, dove non abbiamo «esportato la democrazia» ma riconsegnato le chiavi agli stessi studenti coranici di allora, cresciuti ma non troppo cambiati.
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