Spence, premio Nobel per l’Economia, sostiene la candidatura di Torino: “Città ideale per il Festival”
Gabriele De Stefani
DALL’INVIATO A BOLOGNA. «Torino è la città ideale per il Festival dell’Economia, sarebbe una scelta con un valore simbolico perfetto per il mondo che stiamo costruendo per il post-pandemia. Un mondo in cui tutto cambierà e ha già iniziato a cambiare a grande velocità: le città, il lavoro, le relazioni, la sanità, la scuola». Michael Spence, premio Nobel per l’Economia insieme a Joseph Stiglitz e George Akerlof, è a Bologna per «La grande transizione», la giornata di studi organizzata dalla Federazione nazionale dei Cavalieri del Lavoro per discutere con istituzioni, imprenditori e accademici le svolte che attraverseranno la società occidentale nei prossimi anni. Rivoluzioni che, ragiona l’economista, hanno in Torino un potenziale motore di sviluppo e di pensiero.
Professore, cosa la convince della candidatura?
«Se
penso a Torino, penso a due cose: la filiera dell’automotive e il
Politecnico. Il primo è un settore chiave per la transizione ecologica
dell’industria, è uno di quelli chiamati alla sfida di ripensarsi
radicalmente. Il Politecnico invece è un’istituzione culturale e
formativa di livello europeo, con le competenze per risolvere tanti dei
problemi che dovremo affrontare. A Torino c’è esattamente ciò di cui
abbiamo bisogno per la doppia grande sfida che attende il mondo da oggi
ai prossimi 30 anni: da una parte ripensare i modelli di sviluppo e
produttivi, dall’altra spingere su ricerca e formazione per non lasciare
indietro nessuno ed evitare che la transizione moltiplichi le
diseguaglianze. Torino può tenere insieme benissimo queste due
esigenze». Le istituzioni europee stanno disegnando un continente verde e digitale per le prossime generazioni. Siamo pronti?
«Siamo
ad uno snodo cruciale della storia europea. C’è una grande fiducia,
soprattutto nei confronti dell’Italia, per la ripartenza dopo i mesi più
duri della pandemia e per la grande mole di investimenti pubblici
attivati con il Recovery Plan. Io però sarei prudente, perché nessuno
può fare previsioni di medio-lungo periodo sull’evoluzione della
pandemia, che è più persistente di quanto credessimo. Le previsioni che
leggiamo in giro lasciano il tempo che trovano: che senso ha dire che
saremo oltre il Covid in una determinata data quando domattina potrebbe
spuntare una nuova variante? Un punto fermo da cui ripartire però c’è ed
è la vera, grande lezione di questo anno e mezzo”.
Quale?
«Nessuno
ne esce da solo e nessuno tornerà ai livelli di benessere del passato
se non lo faranno anche gli altri. Per questo dico che è responsabilità
delle grandi potenze finanziare in fretta i vaccini nei Paesi poveri,
per prevenire il pericolo di nuove varianti del virus».
I
primi passi verso la doppia transizione digitale e verde stanno
iniziando a creare qualche problema: interi settori produttivi temono di
andare fuori mercato e un’ondata di rincari è in arrivo. Pagano i più
deboli, che perdono il lavoro e si impoveriscono. Era già successo con
la globalizzazione e così si sono aperte le porte ai populismi. Il mondo
post-Covid rischia di allargare le diseguaglianze?
«Il
rischio c’è, senza dubbio. Il digitale richiede competenze e chi non le
ha rimarrà tagliato fuori: per questo le politiche educative devono
tornare centrali. Il green invece pone un tema di sostenibilità
economica importante, perché se per inquinare meno i prezzi schizzano
come sta accadendo ora a materie prime e bollette poi il conto lo pagano
tutti, imprese e cittadini, ma soprattutto i più deboli. Non possiamo
permettercelo. È una fase di passaggio delicatissima, in cui tocca alla
politica giocare il proprio ruolo».
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