L’Italia agli ultimi posti per aumento dei salari: costo del lavoro e scarsa produttività frenano la crescita

«Se i contratti nazionali hanno un ruolo importante nel fissare un minimo salariale condiviso, non assicurano con la stessa forza un aumento degli stipendi verso l’alto». Lo spiega Francesco Nespoli, presidente di Adapt, l’osservatorio sul lavoro fondato da Marco Biagi. «I contratti collettivi che prevedono forme di retribuzione variabile in base alla produttività non raggiungono gli obiettivi, perché questa è spesso bassa, stagnante, su valori consolidati da decenni. Una condizione complessa in cui contrattare, perché in assenza di produttività crescente la disponibilità dei datori di lavoro agli aumenti si riduce. E se non aumenta la produttività non aumenta lo stipendio». 
Secondo i dati Istat, la retribuzione dei contratti nazionali ha subito variazioni minime a partire dal 2017. A giungo, l’aumento generale è stato dello 0,6%.  L’inflazione – cioè i costi di acquisto per beni e servizi – è aumentato ad agosto dello 0,5%, rendendo di fatto ininfluente la crescita della retribuzione. 
Caso diverso quello della Germania. Nell’ultimo trimestre, i salari nominali tedeschi – cioè il denaro guadagnato dal lavoratore – sono aumentati del 5,5% rispetto all’anno precedente. Aggiustando il dato al costo della vita nel Paese, la crescita si ridimensiona al 3%. Che è un indicatore di un’economia in salute. 
I costi del lavoro
Un altro fattore che scoraggia la crescita di salari è il cuneo fiscale. Cioè la differenza tra lo stipendio netto del lavoratore e quanto viene versato dall’azienda. Una misura del costo del lavoro, che di solito comprende le spese previdenziali – a carico dell’azienda – e le tasse sul reddito, pagate dal lavoratore. Imposte elevate scoraggiano l’aumento degli stipendi, perché senza una riduzione dell’imposte si aggraverebbe il costo complessivo del lavoro. 

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Il suo ridimensionamento è stato oggetto di battaglie politiche bipartisan nel corso della storia recente. Ma secondo i dati Ocse, in Italia il cuneo fiscale di aggira intorno al 46 per cento del salario lordo. Quasi la metà di quanto versato dalle aziende, cioè, finisce in contributi o tasse.  Un dato immobile da vent’anni. Altre Nazioni come Germania o Francia hanno ridimensionato questo dato, aumentando al contempo redditi e produttività. Un tema oggetto di dibattito, anche in vista della riforma fiscale annunciata dal presidente del Consiglio Mario Draghi: «In Italia si registra un eccesso di tassazione su lavoro e imprese – conclude Reichlin – perché un cuneo fiscale molto elevato scoraggia l’offerta di lavoro e reprime la produttività. E’ uno dei motivi che porta ad affrontare la riforma generale della tassazione, con misure di lungo periodo che redistribuiscano il carico fiscale in maniera più equa e progressiva. Per questo in Italia c’è bisogno di una riforma che aumenti efficienza, produttività ed equità. Incrementando così la partecipazione al lavoro». 

LA STAMPA

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