Tutti alle urne col cinghiale in corridoio Tutti alle urne col cinghiale in corridoio
Salvini è nudo di fronte alle sue ambiguità. Da una parte l’erratico spaesamento “oltrista” da Partito della Nazione, che porta il suo Cetto a ramazzare Laqualunque: Free-Vax e Flat Tax, No-Pass e Quota 100. Dall’altra parte il pragmatico radicamento governista del Partito del Nord, che fu di Bossi e oggi è incarnato dai presidenti di Regione Zaia-Fontana-Fedriga. Salvini deve sciogliere questo grumo di contraddizioni. O lo fa, o è “unfit to lead Italy”. Qualunque sia l’esito del voto di queste amministrative.
La stessa cosa vale per Giorgia Meloni. Può governare l’Italia, una leader vera e verace che ha portato il partitino reduce dal collasso finiano al 20%, ma che alle sue spalle ha il vuoto e al suo fianco i fantasmi del passato? L’abisso etico ed estetico scoperchiato da Fanpage e Piazza Pulita parla da solo. E qui non conta il colore dei soldi, ma il valore dei dirigenti. Un europarlamentare che gigioneggia in piazza tra saluti romani e inni al Duce, ironie antiebraiche e birrerie di Monaco, è una vergogna di fronte al mondo. E la Capitana non si può accontentare dell’autosospensione, perché dietro a Carlo Fidanza c’è un milieu, un retroterra, un brodo di coltura. Giura che nel suo partito “non c’è spazio per razzisti, antisemiti e filonazisti”. Ma non riesce a pronunciare la parola-chiave, da cui tutto dipende: fascismo. “FdI non ha più nulla da spartire col fascismo e non vuole i voti dei neofascisti”: questo dovrebbe dire, ma non dice. Sa che, se lo dicesse, perderebbe voti e apparati. Secondo lo storico Franco Cardini, ferma restando la serietà e l’onestà della sua leader, quel partito resta invotabile perché “crogiuolo umano disperante, sociologicamente e politicamente penoso, ceto piccolissimo borghese che vive nella paura della retrocessione sociale”. Un giudizio forse eccessivo. Ma sta alla Meloni dimostrarlo. Sta a lei selezionare una classe dirigente all’altezza. Sta a lei indicare per il suo futuro governo un ministro dell’Economia credibile e un ministro degli Esteri spendibile. O lo fa, o anche lei è “unfit to lead Italy”. Pure se domani sera avrà superato Salvini nei voti di lista.
C’è un cinghiale grande nel corridoio dei Cinque Stelle. Appendino e Raggi lo vedono materialmente, mentre razzola tra i rifiuti di Torino e di Roma, già capitali-simbolo della rivoluzione pentastellata, oggi sul punto di esserne la tomba. Conte lo vede politicamente, in quell’impalpabile “nuovo corso” di un Movimento balcanizzato. L’ungulato ha le fattezze di Grillo, che rispunta dopo il livoroso video in difesa di suo figlio: “È ora che la mia voce torni a farsi sentire”, avvisa l’Elevato, e per Giuseppi suona come una minaccia. Ma ha anche le fattezze di Di Maio, che al riparo tra le feluche della Farnesina accresce relazioni e accumula capitale politico, in attesa di spenderlo al momento propizio. Nessuno sa cosa sarà di M5S e del suo Avvocato, dopo questo voto. Nessuno sa se la Supernova grillina imploderà, se diventerà pulviscolo di partiti personali o satellite di partiti maggiori. Comunque vada, sarà un insuccesso.
C’è un cinghiale anziano nel corridoio della sinistra. Si chiama identità. Vaga tra le diverse anime del Pd, quella che predica radicalità e quella che razzola governabilità. Si disperde tra la vocazione maggioritaria e centrista (facciamo come la Spd!) e quella gregaria e movimentista (fondiamoci con M5S!). Finora Letta (dallo ius soli alla legge Zan, dalla patrimoniale al salario minimo) ha alternato rumorose scosse programmatiche e silenziose ritirate strategiche. Adesso, quasi suo malgrado, può vincere a Siena ed espugnare le grandi città. Sarebbe un forte ricostituente. Ma se diventasse pretesto per andare avanti così, diventerebbe un suicidio politico. I progressisti, per tornare a proporsi come forza di governo, devono dire chi sono e dove vogliono andare: qual è la rotta, il bagaglio culturale, i compagni di viaggio, l’orizzonte della legislatura, la mappa per eleggere il prossimo Capo dello Stato. Su tutto questo urgono risposte.
C’è un cinghiale strano, infine, nel corridoio di tutti. Si chiama Mario Draghi. Che uso fare del presidente del Consiglio più stimato in Italia e nel mondo? Questo voto locale non avrà impatto nazionale, perché il suo governo va avanti nonostante i partiti. Ma questo stato di sospensione, che è a suo modo uno stato di eccezione, non può durare. La svolta giorgettiana nasce da qui: nel 2022 i partiti torneranno a sgomitare e il premier rischia un logoramento che non ci possiamo permettere. È dunque meglio che traslochi al Colle, e poi si torni al voto? O che resti fino al 2023, a finire il lavoro? Ogni soluzione ha pro e contro. Ciò che importa, oltre alla volontà del diretto interessato, è che i partiti siano in grado di gestire questo passaggio delicatissimo per le istituzioni. Che sul Quirinale ci sia una regia chiara e condivisa. Se Draghi deve traslocare, serve uno schema alla Ciampi, il “presidente di tutti” incoronato alla prima votazione. Se deve invece rimanere al suo posto, serve una maggioranza che lo faccia governare come sa e come deve. Perché una cosa è certa: con tutti i limiti e gli errori, nella Animal House tricolore Draghi pare il “cinghiale bianco” di Battiato.
LA STAMPA
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