Il centrodestra al bivio
Ovviamente non si è votato solo sui vaccini. Ma i sovranisti italiani non hanno compreso che il vento è cambiato, che la pandemia ha segnato un «ritorno all’ordine», che Trump ha perso e Marine Le Pen perderà, che le istituzioni europee si sono rafforzate, e in Italia è arrivato Draghi. Salvini ha scelto di appoggiarlo, ma non ha fatto una campagna elettorale coerente con se stesso. Infatti è Salvini a pagare il prezzo più alto nelle urne, e non soltanto per il caso Morisi che ne ha appannato la ruggente immagine social, quanto per le oscillazioni dalla linea pragmatica dei Giorgetti e degli Zaia.
La destra italiana rischia di perdere i ballottaggi tra due settimane, ma può ancora vincere le prossime politiche. Deve però scegliere se il modello è la destra radicale e sovranista di Marine Le Pen o il centrodestra liberale ed europeo, che è stato ieri di Angela Merkel e sarà domani di Isabel Diaz Ayuso, la donna che governa la Comunità di Madrid. Se il futuro è nel Partito popolare europeo di Ursula von der Leyen, o è nella deriva illiberale della Polonia di Jaroslaw Kaczynsky e dell’Ungheria di Viktor Orbán, che dal Ppe è stato costretto ad andarsene. Non è solo questione di consenso; è questione di programmi e di tenuta. Altrimenti — come disse Giorgetti ad Antonio Polito del Corriere, prima ancora che nascesse il governo Draghi — la destra sovranista e populista può vincere le elezioni, ma poi dura sei mesi.
C’è un’ultima questione da chiarire. Se il Parlamento non cambierà la legge elettorale — e tutto lascia credere che sia difficile —, un terzo dei seggi sarà assegnato con i collegi uninominali. Questo implica l’esistenza di una coalizione, e di un leader che la guidi e sia candidato a Palazzo Chigi. La formula secondo cui le vere primarie saranno le elezioni, e il leader sarà il capo del partito che avrà più voti, è debole. Perché esaspera la competizione tra Meloni e Salvini. E perché espone a complicazioni inattese: che succede se i due partiti sono separati da una manciata di voti? E se uno ha più voti popolari e l’altro — magari perché più bravo al tavolo delle trattative per le liste, che non saranno semplici neppure tra Pd e 5 Stelle — ha più seggi? Un leader credibile, magari scelto meglio di quanto si è fatto con i candidati sindaci, aiuterebbe il progetto. E rafforzerebbe l’idea che le elezioni sono il momento in cui i cittadini decidono da chi vogliono essere governati, e non il fischio d’inizio di una partita che poi si gioca nel Palazzo.
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