I disuguali rimasti senza partito
Ma è con l’avanzata dei 5 Stelle che l’Opa sulla disuguaglianza riesce a pieno, che i partiti eredi della sinistra novecentesca vengono scalzati di brutto e che prende corpo anche una nuova elaborazione delle disparità sociali. Si fa largo un’idea della giustizia sociale che non si appaga di risultati intermedi ma che ha come primo obiettivo la «vendetta» nei confronti del capro espiatorio. Si manifesta una sfiducia totale nella intermediazione sociale come strumento di equità e all’azione dal basso dei sindacati si preferisce l’intervento top down dello Stato. Si contesta tutto l’armamentario riformista della mobilità sociale, della formazione, delle politiche per il lavoro e lo si sostituisce con unico provvedimento — il Reddito di cittadinanza — che finanzia i meno abbienti in chiave di Grande Redistribuzione. In quest’operazione i grillini non solo riscrivono l’abecedario della lotta alla disuguaglianza ma evidenziano anche una ricorrente amnesia nel pensiero della sinistra dell’altro secolo, che aveva esaltato gli scioperi dei lavoratori manuali ma messo clamorosamente in secondo piano la lotta contro la povertà. Grazie al combinato disposto delle idee di cui sopra i 5 Stelle sono arrivati ad avere nel 2017/18 persino il consenso del 40% dei lavoratori autonomi, più della somma di Forza Italia e Lega di allora. La spiegazione è che al centro della società italiana si era creato un magma di risentimento sociale e di rancore che faceva sì che mondi prima differenti tra loro — gli operai, i commercianti, gli artigiani, gli insegnanti — finissero per somigliarsi, i comuni sentimenti di frustrazione che li animavano avevano la meglio sulle differenze. Tutti avevano perso l’orgoglio del proprio lavoro — manuale o intellettuale che fosse — e questa sottrazione li rendeva più uguali tra loro, portati ad autodefinirsi solo in base alla contrapposizione frontale con le élite cosmopolite.
Di tutta questa costruzione teorica e poi politica oggi è rimasto poco. E i difetti evidenziati dal Reddito di cittadinanza sono tutto sommato il meno. Sarebbe interessante capire meglio quali sono i legami tra i 5 Stelle e quel 16-17% di elettorato che, almeno secondo i sondaggi, li voterebbe ancora oggi ma è evidente che il gruppo dirigente rischia di dissipare i guadagni dell’Opa e fatica a formulare, come si evince dai tentativi di Giuseppe Conte, una nuova piattaforma programmatica e la scelta di nuove priorità di insediamento. La disuguaglianza ha perso il suo partito di riferimento e in fondo l’astensionismo selettivo delle periferie che si è registrato alle ultime Amministrative fotografa questo processo, lo rende visibile tutto d’un botto.
Ma umiliando i 5 Stelle e astenendosi dal votare i disuguali hanno operato una scelta di ulteriore radicalizzazione, hanno volontariamente gettato alle ortiche l’ennesima chance di introdurre le proprie ragioni nel circuito della politica? O, come sostengono altri, si sono presi solo un turno di riposo? Se fosse vera questa seconda ipotesi potrebbero aver concorso al temporaneo digiuno elettorale anche fattori che esulano dallo stretto rapporto con la politica ma che investono slittamenti antropologici conseguenza dello choc pandemico. Una maggiore attenzione alla vita «minima», al privato e alla prossimità, persino alla ripresa dei consumi, può aver determinato nell’immediato per gli elettori con meno reddito e scolarità — quell’area che i sondaggisti chiamano «le periferie» — un’accentuazione della distanza dalla res publica. La stessa cosa non è avvenuta per gli abitanti dei quartieri centrali delle grandi città che, pur investiti nel post-Covid dalle stesse domande di significato, sembrano aver deciso di continuare a presidiare la sfera delle decisioni pubbliche, tanto più in una stagione — come quella che si annuncia — caratterizzata da tante discontinuità. L’astensionismo selettivo si può spiegare (anche) così.
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