Gli azzurri e il Paese: il calcio maestro di vita

di   Aldo Cazzullo

Dopo il trionfo mondiale del 1982 che cambiò l’umore del Paese, fu organizzata un’amichevole a Roma per festeggiare. Venne scelto un avversario considerato addomesticabile: la Svizzera. Gli azzurri però avevano ancora la testa al Sarrià e al Bernabeu. Così gli elvetici espugnarono clamorosamente l’Olimpico. Frastornati,
gli eroi di Enzo Bearzot mancarono la qualificazione agli Europei 1984
(vinti poi dalla Francia di Michel Platini).

La Nazionale che a sorpresa è diventata campione d’Europa quest’estate era senz’altro meno forte di quella del 1982. Allora una generazione che aveva incantato il mondo quattro anni prima in Argentina conquistò un trofeo storico contro l’Argentina di Maradona, il Brasile di Zico, la Germania di Rummenigge. Il trionfo inglese è stato la consacrazione per due formidabili difensori di 34 e 37 anni, Leonardo Bonucci e Giorgio Chiellini, e l’affermazione di un gruppo non eccelso ma coeso, cui ognuno ha portato un tassello: la parata decisiva di Donnarumma, i due gol di Chiesa, il tiraggiro di Insigne, il rigore di Jorginho (l’ultimo prima di una serie di errori), la scoperta di Pessina, la conferma di Barella,
il tendine sacrificato da Spinazzola…

In comune con il 1982 c’è il fatto che, dopo un trionfo meritato quanto inatteso, la Nazionale si è rilassata. Gli infortuni degli atleti, le disavventure finanziarie del ct, la fortuna che ci era stata amica ed è divenuta avversa: tutto si tiene, e le congiunture astrali non si ripetono. Ma se la squadra campione d’Europa deve giocarsi la qualificazione ai Mondiali in un complicato spareggio, all’evidenza c’entra anche il vizio nazionale di sopravvalutarsi, in particolare nella buona sorte.

Ovviamente accostare il calcio alla vita e alla politica è spesso fuorviante. Però insomma per noi italiani il calcio non è soltanto uno sport. È un grande romanzo popolare, è la nostra forma di epica, in cui Ettore e Achille sono incarnati di volta in volta da Meazza e Piola, da Rivera e Mazzola, da Totti e Del Piero (certo, pure da Coppi e Bartali). E se un singolo campione può essere anti-italiano, uno sport che si gioca in undici — anzi ormai in ventitré — ha inevitabilmente a che fare con il carattere nazionale e con la fase che il Paese attraversa.

Non è certo che noi italiani, come si ripete in ogni occasione, diamo il meglio di noi stessi nei momenti difficili. Di sicuro diamo il peggio quando ci sentiamo troppo sicuri. Quando pensiamo che ormai sia fatta. Quando ci illudiamo che altri abbiano già risolto tutto per noi.

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