La fatale dichiarazione di guerra agli Usa. Così Hitler perse la sua scommessa mortale

Simms e Laderman non credono alla vulgata di un Hitler in preda a un cupio dissolvi, pronto a incenerire la Germania in un’Apocalisse finale. Già nella biografia del Fuhrer del 2019, Hitler’s a global biography, contestatissima dai critici, Simms negava l’idea di un Hitler pazzo e votato all’autodistruzione, ritraendolo come cosciente della debolezza tedesca di fronte al potere americano, ma determinato a ribaltare la bilancia dell’egemonia con il latifondo, la manodopera sovietica e il petrolio del Caucaso.

Il fascino del volume di Simms e Laderman sta nel contraddire la nostra pigrizia mentale, l’idea che la Storia conosciuta sia l’unica possibile, in un determinismo, antico come Hegel, ma falso: in ogni pagina, come a ogni giro di mano a poker, un Fato originale è in agguato. Hitler apprende del raid a Pearl Harbor da un subalterno, che gli traduce i dispacci dell’agenzia di stampa Reuters, mentre il rivale Churchill lo scopre ascoltando la radio. Nessuno dei due leader sembra sconvolto, troppo immersi nella fatica del presente, per individuare scenari alternativi. Churchill ha paura che gli Usa tronchino il programma di aiuti Lend-Lease, che mantiene viva l’industria bellica anglosassone; Hitler, che detesta lo stato maggiore Wermacht, considerando gli ufficiali snob e incapaci, è preoccupato per i bollettini negativi sull’attacco dell’Armata Rossa alla periferia di Mosca.

Benito Mussolini avrebbe, nel frattempo, potuto rinsaldare il «Fronte Latino», con la destra francese del generale Petain, costituendo, senza guerra agli Usa e d’intesa con il Caudillo Franco in Spagna, un Mediterraneo bunker anti-flotta inglese. Hitler, alla fine, dopo i cinque giorni che avrebbero potuto salvare il Terzo Reich e il fascismo, umiliando Londra e abbandonando Washington e Tokyo a un difficile duello, con il Sol Levante padrone di Singapore, Malesia e, presto di India e Australia, dichiara guerra a Roosevelt. Non per eccesso di sicurezza, lo storico Benjamin Carter Hett, sul New York Times, ricorda che, nel gennaio del 1942, il Fuhrer confida all’ambasciatore giapponese Hiroshi Ōshima: «Non ho idea di come sconfiggere l’America» e, per provargli la sua stima, lo insignisce dell’Ordine dell’Aquila d’Oro, concesso solo a 15 dignitari. Ōshima ricambierà, chiedendogli invano, nel 1945, di non essere evacuato con gli altri diplomatici, restando a combattere a Berlino contro i russi. Allora la Storia era già quella che conosciamo e mio padre, lavorando con gli americani dello Psychological Warfare Branch, doveva riconoscere la saggezza del barbiere, miglior stratega di Hitler, Mussolini e del premier Hideki Tōjō: «L’America forte è!». 

LA STAMPA

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