I veri rating del nostro scontento

Sul fronte politico-istituzionale, chi vaneggia di doppie reggenze, semipresidenzialismi di fatto o elezioni anticipate è artefice di una colposa omissione. Il via libera dei partiti alla riforma costituzionale con la quale abbiamo tagliato 345 deputati e senatori a partire dalla prossima legislatura fu vincolato a un accordo bipartisan su una riforma del sistema elettorale e dei regolamenti parlamentari di cui si sono perse le tracce. In qualche modo, tra due mesi usciremo dal bivio “nuovo presidente della Repubblica/nuovo governo”: ma non usciremo comunque dalla crisi di sistema che ha reso necessario il ricorso al Draghi-Salvatore-della-Patria. Dopo di lui ce ne servirà un altro, e poi un altro ancora. Anche se forse, in realtà, li abbiamo già finiti.

Sul fronte economico-industriale, chi oggi parla di “Locomotiva Italia” è vittima di una pericolosa illusione. Per quanto pirotecnico, quel più 6,3 per cento nel 2021 resta un rimbalzo. Servirà a riportarci ai livelli di crescita pre-pandemica già entro il primo trimestre del 2022. Ma la stessa Nota di Aggiornamento redatta dal Tesoro ci dice che negli anni successivi scenderemo gradualmente nell’aurea mediocritas di sempre: 4,7 per cento nel 2022, poi 2,8 nel 2023, poi 1,9 nel 2024. Fino a scivolare nello zero virgola, in cui abbiamo mestamente languito in questi lunghi anni di simil-stagnazione. Della crescita “di prima”, quella dell’era pre-Covid, non sappiamo cosa farcene. Era quella che ha generato disuguaglianze sempre più insopportabili e differenziali con i partner europei sempre più incolmabili. All’Italia serve tutt’altro, in termini quantitativi e qualitativi.

C’è un “rating sociale”, nel quale perdiamo tutti i confronti. Ce lo conferma il Censis, che oltre a denunciare la fuga nell’irrazionale, la sindrome cospirazionista, le tecno-fobie, il sonno fatuo della ragione, indica un altro baco della nazione: l’idea, purtroppo tutt’altro che peregrina, che “si stava meglio prima”. Dove il “prima” non sono 2, ma 40 anni fa. Il Pil reale è cresciuto del 45,2 per cento negli Anni 70, del 26,9 negli Anni 80, del 17,3 negli Anni 90, del 3,2 nel primo decennio del nuovo millennio, dello 0,9 nel decennio pre-pandemia. Per salari e stipendi è andata anche peggio. Negli ultimi trent’anni di globalizzazione accelerata, tra il 1990 ad oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: meno 2,9 per cento in termini reali, rispetto al più 276,3 della Lituania, primo Paese nella graduatoria europea. Servono riforme incisive, in qualche caso anche divisive. Salario minimo, fisco. Le stiamo facendo? L’esecutivo ha solo avviato un percorso. Andrebbe portato a termine. Possibilmente senza compromessi al ribasso, com’è invece avvenuto sul contributo di solidarietà sui redditi oltre i 75 mila euro, necessario a coprire gli sgravi in bolletta ai ceti più deboli: una retromarcia indecorosa, degna di un pentapartito qualsiasi, non del “governo dei migliori”.

C’è un “rating industriale”, nel quale le bocciature sono dietro l’angolo. Come scrive Luigi Zingales sul Financial Times, la “Corporate Italia” non è ancora entrata nel Ventunesimo Secolo. Siamo l’ottava economia del mondo, ma nella classifica Fortune sulle prime 500 aziende del pianeta ne abbiamo solo 6, di cui 3 sono pubbliche. La Spagna ne ha 7, la Francia 26. Gli industriali italiani non sembrano in grado di costruire giganti capaci di competere sul mercato globale. Sul fronte privato, ossessione per il controllo societario, relazioni parassitarie con lo Stato, piccolo è bello. Sul fronte pubblico, investimenti risibili su ricerca e università, riforme del processo civile e del diritto penale d’impresa inadeguate. Come ci stiamo muovendo, per tirarci fuori da queste paludi stagnanti nelle quali scivoliamo da anni? Cosa stiamo facendo per ristrutturare le catene arrugginite del valore, ora impastoiate anche dal boom dei prezzi delle materie prime e dal fantasma dell’inflazione?

Torniamo così al crocevia micidiale di febbraio. Draghi al Colle o Draghi a Palazzo Chigi. Oppure, per dirla con Romano Prodi: sette anni di autorità o un altro anno di potere. Considerando che il Recovery Plan è solo ai suoi primi vagiti, e che non possiamo permetterci di ucciderlo in culla, sappiamo quale sarebbe la scelta più sensata. Ma oggi, di sensato, c’è solo quello che dice Papa Francesco: peggio del Covid, c’è solo l’errore di sprecarlo. E noi, se non andiamo avanti fino in fondo con le riforme, questo “spreco” lo stiamo rischiando.

LA STAMPA

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