Presidente della Repubblica, i danni di un voto protratto
Se il 24 gennaio questi partiti non avranno trovato un accordo per procedere immediatamente alla nomina del presidente della Repubblica su un nome che dia tranquillità e garanzie a tutti, si può star certi che le ripercussioni negative saranno immediate. E il capo del governo più che quelli dell’ex banchiere centrale dovrà vestire i panni del domatore. Tre elezioni «difficili» del capo dello Stato — quelle di Segni (1962), di Saragat (1964), di Leone (1971) — ebbero come effetto un terremoto che durò un decennio, trascinò nel baratro l’intera esperienza del primo centro-sinistra e inghiottì nel gorgo personalità del calibro di Aldo Moro e Amintore Fanfani. Provocando alla fine le prime elezioni anticipate nella storia dell’Italia repubblicana (1972). E quando nel 1992 — ai primi passi di tangentopoli — le Camere trovarono in extremis un traballante accordo solo a ridosso dell’uccisione di Giovanni Falcone (in quella occasione toccò a Scalfaro), anche qui le ripercussioni sulla scena politica furono nefaste. Per la prima volta l’Italia, per dare stabilità alle fondamenta di Palazzo Chigi, fu costretta a rivolgersi ad un «tecnico venuto da fuori» (Ciampi). Ma non bastò, se non per pochi mesi. Anche allora il Paese fu poi costretto a ricorrere a elezioni anticipate (1994). Mentre l’intera classe politica — o quasi — veniva smantellata dall’azione della magistratura.
Questo per dire che quando l’elezione del presidente della Repubblica è burrascosa, non c’è poi presidente del Consiglio che tenga. E immaginare un Draghi che fischiettando riprenda ad applicarsi ai punti del Pnrr previsti per il 2022 e alla campagna contro chissà quale nuova variante del Covid, potrebbe rivelarsi un’ingenuità. Soprattutto se il capo del governo è costretto a impegnarsi mentre i partiti della sua maggioranza si insultano, si picchiano e si tendono tranelli a ogni angolo di strada.
Tanto più che Draghi a questo punto non avrebbe più nessun’arma per riportarli all’ordine. Minacciare le dimissioni? Avrà al massimo un centinaio di giorni per fare la voce grossa. Nel mese di dicembre, i partiti, tutti, gli hanno fatto capire in ogni modo di volerlo a Palazzo Chigi giusto il tempo di allontanare per un ultimo anno la prova delle elezioni. Tempo che essi intendono dedicare alla competizione tra di loro. Indisturbati, se possibile. L’entusiasmo nei confronti di Draghi (ove mai fosse stato autentico quello di undici mesi fa) è apparso nell’ultimo mese del tutto scemato. I riconoscimenti che continuano a venire a Draghi dai grandi d’oltre confine, dalla comunità economica internazionale e dalle agenzie di rating hanno anzi indispettito una politica (la nostra) ansiosa di riprendersi quello che considera «suo». A Draghi — ha scritto con efficacia Gianfranco Pasquino (su «Domani») — verrà d’ora in poi riservato il ruolo di «parafulmine», con ciò creando una situazione «tanto inusitata quanto foriera di rischi, per lui e per il sistema politico».
Il problema non è dunque chi debba essere eletto presidente della Repubblica ma che non ci si può e non ci si deve illudere che, a presidente eletto, magari per il rotto della cuffia e a prezzo di una dura contrapposizione, i discorsi di governo possano essere ripresi dal punto in cui si erano interrotti.
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