Il Pnrr potrebbe cambiare. E Bruxelles aspetta al varco il governo italiano

di Claudio Tito

C’è una parola che da qualche settimana sta iniziando a circolare nei palazzi di Bruxelles: “Redeployment”, redistribuzione. Ed è riferita all’Italia. Anzi, al Pnrr del nostro Paese. Ossia al Piano con il quale si impegnano le risorse del Recovery Fund. A cosa si riferisce? Alla possibilità, prevista formalmente, di rivedere i piani già presentati e approvati dalla Commissione e dal Consiglio europeo.

Negli uffici tecnici di Bruxelles che sono chiamati a valutare semestre per semestre il raggiungimento degli obiettivi, è infatti scattata una certa preoccupazione. L’agenda del 2022, infatti, è piuttosto corposa: ben 102 target. Ma l’attenzione si concentra su una quota specifica di questi traguardi: quella che ricade sotto la responsabilità di enti locali, Regioni e aree metropolitane. E in quella sede potrebbero emergere difficoltà consistenti a impegnare le risorse e a realizzare le opere. Bisogna tenere presente che il 36 per cento dei fondi assegnati dal Recovery è affidato proprio alle autorità locali. Il governo nazionale ovviamente vigila e può attivare una sorta di potere sostitutivo, ma la messa a terra spetta comunque a Comuni e Regioni. Si tratta di 66 miliardi da impiegare per asili nido, rigenerazione urbana, edilizia scolastica e ospedaliera, economia circolare, interventi per il sociale. Sono misure presenti in particolare nelle Missioni 2 e 5 del Piano Nazionale di Riforme e Resilienza. L’obiettivo principale è soprattutto non perdere le risorse. Perché se un solo obiettivo non viene raggiunto, si bloccano gli stanziamenti semestrali. Si bloccano e si perdono per sempre. Non è un caso che in queste ore anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi, insiste nel sostenere che l’aspetto più importante di questo semestre è rispettare le scadenze del Pnrr e che qualunque cosa accada nella scelta del Quirinale ci dovrà essere un governo in grado di garantire continuità nell’attuazione del Piano. Niente elezioni, dunque. Anche perché al di là di una eventuale rinuncia alla seconda tranche, l’effetto sarebbe devastante sul giudizio che i mercati finanziari daranno di noi.
L’Italia ha superato a dicembre il primo esame e riceverà entro un paio di mesi la prima quota di fondi. Ma il nostro Paese è appunto atteso dall'”esame” della prossima estate e del prossimo inverno che valgono rispettivamente 19 e 21 miliardi di euro. Allora la parola “redeployment” è iniziata a circolare nelle stanze “tecniche” della Commissione e del Parlamento proprio in riferimento all’ipotesi di cambiare in corsa il Pnrr per redistribuire i fondi: rimpolpare gli “obiettivi” con maggiori garanzie di realizzazione e asciugare quelli più a rischio. Una procedura dal punto di vista normativo assolutamente legittima. L’articolo 21 del Regolamento 2021/241 infatti stabilisce: “Se il piano per la ripresa e la resilienza, compresi i pertinenti traguardi e obiettivi, non può più essere realizzato, in tutto o in parte, dallo Stato membro interessato a causa di circostanze oggettive, lo Stato membro interessato può presentare alla Commissione una richiesta motivata affinché presenti una proposta intesa a modificare o sostituire le decisioni di esecuzione del Consiglio”. In quel caso la Commissione ha due mesi di tempo per valutare le modifiche e quindi proporre al Consiglio il parere.

È evidente che il riferimento alle “circostanze oggettive” significa che la richiesta si deve basare su difficoltà che prescindono dalla capacità di raggiungere le “milestones”. Il caso più citato dalla “tecnostruttura” di Bruxelles sono le calamità naturali. Nello stesso tempo, però, quella formula apre uno spazio di “discrezionalità politica”. In due Paesi, ad esempio, si è introdotto questo argomento nel dibattitto pubblico: in Romania e nella Repubblica Ceca. Il tutto motivato – guarda caso – dal cambio di governo. Un nuovo esecutivo, però, che effettuasse come primo atto il cambio in corsa del Pnrr si presenterebbe con un buon biglietto da visita davanti agli alleati? Come si è visto in questi mesi, i Trattati e i Regolamenti sono stati spesso tarati sull’autorevolezza dei singoli Paesi e dei singoli capi di Stato e di Governo. La scelta, cioè, di attivare questo articolo 21 sarebbe praticabile se accompagnata dalla garanzia della credibilità di chi la esercita.

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