Il rimpasto secondo Matteo
Secondo un fidatissimo del segretario, Salvini non si vuole rassegnare al silenzio imposto da Draghi: «Se vuole andare al Quirinale – è il suo ragionamento – deve parlare con noi leader, non può rifiutare il rapporto con i partiti che hanno in mano la decisione sul prossimo presidente della Repubblica». Nell’entourage e tra i parlamentari più vicini al leghista si fatica a trattenere l’irritazione verso l’ex numero uno della Banca centrale europea. In queste ultime due settimane, Salvini ha invocato più volte un incontro urgente con il presidente del Consiglio sul caro energia e sull’immigrazione, senza ricevere risposta.
Vista da Palazzo Chigi, la storia sembra un po’ diversa. Se arrivasse una richiesta ufficiale, dicono, Draghi accetterebbe di incontrare Salvini, anche a rischio di aprire una passerella con tutti gli altri leader. È vero, però, che il capo del governo sta evitando mercanteggiamenti con i partiti e, giurano nel suo staff, continuerà su questa strada. Draghi si sta sottraendo a ogni ragionamento sul governo che nascerebbe dopo il suo addio, perché anche nella forma intende mantenere la dialettica istituzionale prescritta dalla Costituzione. Sarà nel potere del futuro inquilino del Colle costruire un governo, sulle indicazioni delle forze parlamentari e sulla base di una maggioranza chiara. Draghi lo farà solo se sarà chiamato a indossare i panni del presidente della Repubblica.
Una precisazione quasi banale, utile però a spegnere ogni fiammata di rivendicazione dei leader. Ma dall’osservatorio della presidenza del Consiglio intravedono anche altro nelle parole messe in fila ieri da Salvini. Un’intenzione che in qualche modo sgraverebbe il destino di Draghi dall’incognita Berlusconi. Il segretario della Lega non si fida del presidente di Forza Italia e teme le manovre del suo braccio destro Gianni Letta, ricevuto dal capo di gabinetto del premier con tanto di agenzie sapientemente veicolate. Salvini non crede nei numeri di Berlusconi e si è convinto che al momento giusto gli sfilerà il ruolo di kingmaker mettendo i suoi voti a disposizione di Draghi, o di Sergio Mattarella, per il bis, come sperano ai vertici del Pd. Ecco perché, nel governo, tra i dem e i ministri di M5S e Fi, non temono di usare il termine «ricatto». Un «duplice ricatto»: uno rivolto a Berlusconi, l’altro a Draghi.
LA STAMPA
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