Il partito di Draghi
Se così non fosse quella che oggi chiamiamo «coalizione Ursula» formata da liberali, socialisti e grillini, che in Europa si sono uniti per eleggere Von der Leyen a capo della Commissione Ue, in Italia potrebbe benissimo essere ribattezzata “Riformisti con Draghi” o qualcosa del genere. Sarebbe il sogno post-berlusconiano di Brunetta e forse anche di Mara Carfagna, l’ancora di salvataggio di ex forzisti come Giovanni Toti, di Luigi Brugnaro, di Matteo Renzi, di Carlo Calenda, di chi vaga in cerca di un centro meno traballante, lontano da sovranismi, nazionalismi e residui del grillismo. Anche Luigi Di Maio sembra interessato. Soprattutto se la guerra casalinga con Giuseppe Conte dovesse finire con il divorzio dal governo del M5S e con una conseguente scissione. Di Maio si sta guardando attorno, e i corteggiamenti di queste ore, contenuti nei messaggi di solidarietà di renziani e centristi, sono un segnale evidente di convergenze non più così fantasiose.
Sul Quirinale il ministro degli Esteri ha lavorato per Draghi, prima, e con Draghi, dopo, per assicurarsi un epilogo accettabile e far naufragare la scelta della coordinatrice dei servizi segreti Elisabetta Belloni. Lo ha fatto di sponda con Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, che da capo-corrente di Base Riformista è un altro che non ha mai escluso una riedizione di governo, nel 2023, della coalizione Draghi. Senza la Lega di Matteo Salvini, si intende. Certo, tra i registi del governissimo c’è il ministro Giancarlo Giorgetti, uomo che gode di stima e fiducia del premier, autore della errata previsione sul banchiere al Colle. Ma dentro la Lega, tra i vecchi compagni padani che lo conoscono da più tempo sono convinti che posto di fronte a una scelta Giorgetti non tradirà il partito. —
LA STAMPA
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