Ora l’Italia cambi o il Pnrr non basta
Mario Deaglio
Archiviata, fortunosamente ma felicemente, la (ri)elezione del Presidente della Repubblica, e ridimensionato, speriamo stabilmente, il rischio coronavirus, si potrebbe pensare che politica ed economia stiano ritornando quasi automaticamente a una sorta di normalità sul sentiero di crescita che hanno cominciato a percorrere, con inaspettato, e forse irripetibile, vigore, nel corso del 2021. Purtroppo non è necessariamente così e non c’è tempo per autocongratularsi: l’incertezza e l’aleatorietà, che sembrano essere compagne di viaggio abituali dell’Italia potrebbero trasferirsi dalla politica all’economia. E anche ammettendo che i rapporti tra i partiti della maggioranza di governo rimangano stabili, il nostro futuro è avvolto in una sorta di nebbia dalla quale cerchiamo di uscire con l’aiuto di un faro.
Questo faro è il Pnrr, sigla impronunciabile di Piano nazionale di ripresa e resilienza, un documento di 246 pagine concordato in sede europea. Largamente finanziato con le risorse del programma europeo Next Generation Europe – di cui l’Italia è di gran lunga il maggior beneficiario – è stato definitamente approvato a metà del luglio scorso. Potrebbe avere questo sottotitolo: il più duro programma di rinascita dell’Italia degli ultimi 75 anni. Non si tratta di un Piano Marshall che, nell’immaginario collettivo, è associato all’erogazione quasi festosa di aiuti di sopravvivenza; assomiglia piuttosto a un sentiero in salita sul quale dovremo correre a una velocità che non ci è abituale, se vogliamo ancora esistere come realtà economica moderna di qui a 20-30 anni.
Il Pnrr durerà fino al 2026 e nel solo 2022 si dovranno raggiungere un centinaio di obiettivi – in buona parte nel settore pubblico – all’incirca due alla settimana, che dovranno essere monitorati, realizzati, controllati e verificati perché l’Europa proceda al pagamento delle enormi somme promesse. Il Piano comprende la realizzazione di opere fondamentali, concordate con l’Unione Europea, dalle reti informatiche a quelle dei trasporti, dalla scuola alla salute e all’economia circolare. Conoscendo le lentezze strutturali e le complessità procedurali dell’amministrazione pubblica italiana a molti sembrerà chiaramente impossibile arrivare all’obbiettivo. Per riuscirci il piano include due “riforme orizzontali”: dell’amministrazione pubblica e della giustizia, che dovranno sostanzialmente cambiare non solo le procedure ma anche la cultura di queste due grandi componenti dell’italianità mediante innovazioni legislative, in parte già in via di completamento, che dovranno portarci al livello del resto d’Europa per quanto riguarda l’efficienza dell’azione pubblica. Alla base di entrambe c’è la semplificazione e la razionalizzazione delle leggi in vigore, a cominciare da quelle che regolano i contratti pubblici. I tempi biblici per la realizzazione delle opere pubbliche, costellati di ricorsi delle imprese che non vincono gli appalti, devono sparire subito. Altrimenti, non cambia nulla.
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