“Un’odissea di dieci anni. In divisa anche in cella con l’incubo della forca”

Fausto Biloslavo

Massimiliano Latorre è in divisa, impeccabile, da marò, orgoglioso delle medaglie e mostrine di tante missioni dalla liberazione del Kuwait, al Kosovo fino all’Afghanistan. Il tribunale di Roma ha chiuso con l’archiviazione l’inchiesta sulla morte di due pescatori indiani in alto mare, dieci anni fa, quando Latorre e l’altro fuciliere di marina, Salvatore Girone, difendevano la nave italiana Enrica Lexie dai pirati.

Come descriveresti questi 3.683 giorni?

«È stata un’Odissea psicologica e umana».

Avete ottenuto la definitiva archiviazione delle accuse.

«Sul primo momento ho sentito al telefono Salvatore e non ci credevamo entrambi. Si vive nell’ombra dei traumi di questi dieci anni, ma finalmente è stata riconosciuta la nostra innocenza. Il motivo per cui ho sofferto tanti anni con dignità e in silenzio. Era una questione d’onore come uomo e militare. Siamo stati scagionati da qualsiasi reato ed è riconosciuto che abbiamo rispettato appieno le regole d’ingaggio».

Cosa è successo quel giorno di dieci anni fa in alto mare?

«È tutto scritto negli atti. Abbiamo visto che un’imbarcazione di avvicinava e sono state adottate le regole d’ingaggio in caso di attacco dei pirati. Abbiamo sparato solo colpi di avvertimento oltre ad avere utilizzato le altre misure previste come flash e sirene. L’archiviazione corrisponde a una piena assoluzione».

Perché siete tornati indietro nel Kerala?

«Ripeto che è tutto scritto negli atti. Gli indiani sostenevano che dovevamo identificare gli equipaggi che avevano fermato. Noi non abbiamo mai visto i due pescatori morti, non abbiamo nulla a che vedere con loro».

Alle loro famiglie vorresti dire qualcosa?

«Mi sento vicino, ma adesso, come allora, non sono responsabile della perdita dei loro cari. Umanamente mi dispiace, ma non sono io la causa del dolore».

Gli indiani che sono venuti a prendervi a bordo vi hanno trattato da criminali?

«Quando ci hanno portato a terra volevano farci scendere incappucciati. Non lo accettavamo perché indossavamo la divisa, che non abbiamo mai abbandonato neppure in carcere. Il console Giampaolo Cutillo si è battuto per evitare che incappucciassero due militari italiani».

Se non violenza avete subito pressioni dagli indiani?

«Pressioni sì, ma abbiamo sempre preteso rispetto reciproco. Qualche volta è venuto a mancare».

Qual è stato il momento più difficile?

«All’arresto e quando siamo rientrati per due volte in India con la pena di morte che gravava sulle nostre teste. C’era stato un accanimento giudiziario nei nostri confronti che avvertivamo a pelle. La pena capitale era un pericolo non tanto lontano».

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