“Un’odissea di dieci anni. In divisa anche in cella con l’incubo della forca”

Volevano a tutti i costi un colpevole?

«Assolutamente sì. Volevano un colpevole a prescindere. Eravamo sotto processo con delle norme che non solo prevedevano la pena di morte, ma l’inversione dell’onere della prova. Insomma il dado era tratto. Mi sono immaginato sulla forca con la consapevolezza di essere innocente».

Vi siete sentiti abbandonati?

«Sì, quando la nostra vicenda ha perso di interesse nell’opinione pubblica. Siamo stati lasciati un po’ al nostro destino. Ho stretto i denti per continuare ad andare avanti in silenzio ingoiando tanti bocconi amari».

Ed è arrivato anche l’ictus.

«Un’aspra battaglia, ma non ti nascondo che sono vivo grazie a mia moglie Paola che era presente e si è accorta di tutto chiedendo un medico. Se non ci fosse stata non saremo qui a parlarne. Mi ha salvato la vita. Purtroppo l’ictus me l’ha stavolta perché non posso fare più il lavoro operativo di marò, che mi manca tanto. Nella vita di ogni giorno ho delle carenze con le quali convivo. Però metto anche questo nello zaino: carico e vado avanti con dignità».

La gente ti ferma ancora per strada?

«Sì, le attestazioni di affetto ancora oggi sono numerose. Voglio ringraziare tutti a cominciare dalle associazioni d’arma e pure i media che ci sono stati vicini nei momenti più bui. Non dimenticherò mai la gente comune che ci mandava il gadget, il pensierino, il disegno del bambino sul marò, di tutto. Adesso che sono un uomo libero vorrei andare a trovare chi ha creduto in noi, uno ad uno».

IL GIORNALE

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