Berlusconi e l’addio al Giornale: Angelucci pronto a creare il polo editoriale della destra

Ilario Lombardo

ROMA. «A questo punto non avevo più scelta. O rassegnarmi a diventare il megafono di Berlusconi. O andarmene». Era l’11 gennaio del 1994 e con queste parole Indro Montanelli lasciava la direzione del Giornale, da lui fondato 20 anni prima. Quasi 30 anni dopo è Silvio Berlusconi a dire addio alla testata, di cui è socio dal 1977 (allora con una quota di minoranza del 12) e che dal 1992 è nelle mani del fratello minore Paolo attraverso la Società Europea di Edizioni. Nelle prossime ore si potrebbe capire di più della trattativa che trasferirà Il Giornale nelle mani di Antonio Angelucci, imprenditore romano nel campo della sanità, deputato da tre legislature di Forza Italia, che in Parlamento però si è visto poco o nulla, e già editore de Il Tempo e Libero. L’orizzonte di questa acquisizione, è evidente, è la creazione di un polo editoriale della destra italiana. Lo schema della fusione prevede una sinergia tra testate. Una delle ipotesi che circola è di agganciare Il Tempo e Libero come cronache cittadine, rispettivamente di Roma e di Milano, a Il Giornale che invece offrirebbe la parte nazionale.

Ma al di là delle strategie editoriali, il cambio di proprietà è a suo modo un capitolo della fine del berlusconismo che ha segnato gli ultimi tre decenni della storia politica italiana, tra strepitose vittorie politiche, scandali giudiziari, condanne, epiloghi boccacceschi, fino alla scommessa estrema di qualche giorno fa: tentare l’impossibile elezione al Quirinale. Il Giornale è stato quel megafono che Montanelli non voleva diventasse la sua creatura: ha cavalcato la campagna di Berlusconi per il Colle, pubblicando il manifesto (uscito poi anche sul Corriere) che elencava le qualità dell’ex premier, politiche e non, tra le quali l’indubitabile «è padre di cinque figli e nonno di quindici nipoti».

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