La Repubblica dello status quo tra Amadeus e Mattarella
Tra vent’anni, quando ripenseremo a questo scorcio di 2022, ci torneranno in mente due momenti topici e antitetici. Un Festival di Sanremo trasformato in allegoria della rinascita da un rito televisivo consolatorio, liberatorio, quasi rivoluzionario. Una Repubblica parlamentare convertita in monarchia costituzionale da un sistema politico sfibrato, delegittimato, quasi pietrificato. Mi rendo conto, l’accostamento è ardito o persino sacrilego. Ma è il calendario che ha sovrapposto i due eventi, che paiono l’alfa e l’omega di un Paese irrisolto.
Partiamo da Sanremo. Non conta se sia bello o sia brutto. Chissenefrega dei sepolcri imbiancati in platea o delle auto-marchette Rai in batteria. Dobbiamo essere grati comunque ad Amadeus. Il formidabile successo di questa edizione va al di là della sbornia dell’Auditel. Se è vero che il Festival è tutto quello che sappiamo, lo specchio dell’Italia, l’autobiografia della Nazione, allora bisogna riconoscere che stavolta è molto più avanti. Sarà il bisogno di ossigeno dopo due anni di pandemia, sarà la mente prigioniera della paura che vuole evadere. Sta di fatto che il monumentale trolley ovarico costruito sul palco dell’Ariston è capace di generare la qualunque. Quest’anno tutto è fluido e si mescola, nel caleidoscopio dei messaggi vocali e visivi. Vecchi e giovani, maschi e femmine, omo ed etero, tradizione e trasgressione. No Gender, No Party, No Limits. Un Festival “liquido”, come direbbe Bauman. “Panta Rei”, come canterebbe Gabbani (era Eraclito, ma ormai è lo stesso). È finito il tempo in cui erano “solo canzonette”. Qui siamo oltre il costume sociale: siamo nella costituzione materiale. Dove le cose sono già cambiate e cambiano ogni giorno.
Senza aspettare lo Ius soli o la legge Zan. Cito un magistrale Carlo Massarini di due giorni fa, sul nostro giornale: Sanremo è un pendolo che oscilla tra il “chi cazzo è questo” e il “minchia quanto è invecchiato”. Devi schierare due se non tre generazioni, per capire. Fortunatamente il “suo” Marco ha sedici anni, vive sui social e quindi quando comincia a cantare uno che non hai mai sentito nominare, lui invece sa. Questo viene da Tik Tok, quello ha vinto quel contest, quell’altro ha due milioni di follower. È la Generazione Zeta che reclama il suo posto nel mondo. Come, del resto, fanno i centomila studenti che hanno invaso pacificamente le piazze d’Italia. Tu sei anziano, loro sono ragazzi: ma ci ritroviamo tutti qui, sullo stesso palco, a condividere questa cosa complicata che chiamiamo vita. Ad ascoltare, senza l’obbligo di dover giudicare. A cercare di imparare qualcosa, l’uno dall’altro. Certo, intorno al podio si aggirano ancora i padri nobili e le madri costituenti: Morandi e Ranieri, Zanicchi e Bertè. Ma intorno la scena si colora e si popola di Mahmood e di Blanco, di Matteo Romano e di Dargen D’Amico, di Irama e di Rkomi. In mezzo c’è Jovanotti: l’ex “ragazzo fortunato”, non più brillante promessa e non ancora venerato maestro (secondo la storica classificazione del compianto Eddy Berselli), ma trait d’union ideale tra i padri e i figli.
Spostiamoci a Roma, adesso. Che messaggio arriva dalla sfida del Quirinale che tutto doveva cambiare? Lo scampato pericolo, questo è chiaro e l’abbiamo detto. Per come si erano messe le cose, la permanenza di Mattarella sul Colle e di Draghi a Palazzo Chigi è garanzia di solidità per le istituzioni, di affidabilità per i cittadini, di credibilità per i mercati e le cancellerie internazionali. Quanto aiuti l’Italia questo secondo mandato del Capo dello Stato l’abbiamo capito una volta di più ascoltando il manifesto che ha letto alle Camere nel giorno del giuramento: una lezione morale intensa, un’agenda politica densa. E quanto serva agli italiani la prosecuzione del mandato del premier l’abbiamo compreso di nuovo nei giorni successivi. Quel “capisco le vostre ragioni, ma queste sono scelte necessarie e per questo le faremo nonostante il vostro dissenso”, sbattuto in faccia ai ministri leghisti contrari all’ultimo decreto anti-Covid. Poi quel no secco a Salvini e Conte sul nuovo scostamento di bilancio, in un Paese che ne ha già fatti sette in sedici mesi, con una spesa aggiuntiva di 185 miliardi. Due indizi confortanti sulla ripartenza del governo, pronto ad agire e fermo nel reagire alle pressioni dei partiti in un anno critico di campagna elettorale.
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