La Repubblica dello status quo tra Amadeus e Mattarella

La prosecuzione del lavoro dei due presidenti è dunque una buona notizia. Ma dobbiamo dirlo: è anche la prova che la nostra è diventata una Repubblica fondata sullo Status Quo. Uno Status Quo desiderabile. Ma che per sua stessa natura o inibisce il ricambio (come avviene nella generalità dei casi) o ne sancisce l’impossibilità (com’è successo nel nostro). In un mondo normale, e a prescindere dalle candidature sbagliate di Casellati e Belloni, non sarebbe stato un segno di modernità se sul Colle fosse stata eletta davvero una donna? Oppure, non sarebbe stato un segnale di discontinuità se quella scelta, dopo decenni di presidenze espresse dal centrosinistra, fosse ricaduta su una personalità di prestigio del centrodestra? Certo che sì. Peccato che una politica tutta al maschile continui a trattare le donne come carte su un tavolo di poker. Che il centrodestra dimostri ancora una volta una povertà di ceto politico-culturale quasi imbarazzante. Che gli agit-prop pentastellati, pronti nel 2013 a rivoltare l’Italia come un calzino e ad aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, abbiano palesato la pochezza disarmante delle loro “classi dirigenti”. Al centrosinistra è bastato assistere inerte a questa penosa prova di impotenza dei populisti, per poi far valere su tutto e su tutti le ovvie ragioni dello Status Quo. Scrive bene la Suddeutsche Zeitung: “Non capita spesso che lo status quo sia auspicabile, visto che di solito oscura l’orizzonte del rinnovamento, ma in Italia è per ora la migliore delle condizioni possibili”.

Così, mentre al Teatro Ariston irrompe la Z-Generation del 19enne Sangiovanni e del 21enne Aka7even, noi per salvare il Paese abbiamo bisogno di chiedere un secondo mandato al Quirinale a uno straordinario presidente di 80 anni, e di sperare che a Palazzo Chigi duri fino al 2023 ed oltre un prestigiosissimo premier di 74 anni. Dobbiamo ringraziarli, perché senza la loro competenza e la loro esperienza questa Nazione oggi non starebbe in piedi. Ma per il resto, che passa il convento? Adesso, almeno, non raccontiamoci le favole. Evitiamo di dire che la rielezione di Mattarella è stata “una vittoria della politica”: purtroppo è stata la sua disfatta. Non l’hanno scelto in tempo, ci sono arrivati “per contrarietà” (come cantava Guccini). E solo la malafede può far pensare che questo esito fosse già preordinato da “menti raffinate”, che avevano stabilito fin dall’inizio un piano per la rielezione. Solo la cecità può non far vedere la sottile ipocrisia dei 55 applausi che in aula hanno interrotto il bellissimo discorso del presidente della Repubblica, mentre con toni diversi da quelli di Napolitano scandiva il lungo elenco dei bisogni del Paese a cui proprio quegli onorevoli festosi non danno risposte. Chi deve esaudire le tredici “dignità” che gli italiani reclamano inutilmente da troppo tempo? Chi deve approvare una seria riforma della giustizia, che giace tra i veleni da vent’anni?

Il disprezzo qualunquista contro “il Palazzo” e il rancore sociale contro “la Casta” hanno prodotto danni enormi. Troppi untori, in questo tempo di patologia post-democratica, hanno inoculato nelle vene del Paese il virus dell’anti-politica. Ma la politica, bisogna ammetterlo, non ha fatto e non fa granché per trovare l’antidoto. Anche per questo, nella Repubblica dello Status Quo, a Sanremo trionfa il virologo Oronzo Carrisi che canta “Pandemia, ora che vai via…”. Ma tocca davvero alla politica rifondare se stessa, rimettersi in sintonia con la società, assecondarne le istanze di cambiamento. Non toccherà a Checco Zalone spiegare agli italiani cosa c’è dietro l’angolo.

LA STAMPA

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