La vendetta di SuperMario

Annalisa Cuzzocrea

Quando dice «lo escludo», Mario Draghi alza la voce. Come per farsi ascoltare bene, come se servisse anche il tono a far capire ai partiti che con il presidente del Consiglio hanno chiuso. Non si metterà a disposizione di nessun tipo di progetto, qualsiasi sia la geometria politica che voglia rappresentare. Non sarà il federatore del nuovo centro, non sarà l’uomo cui una qualsiasi maggioranza dopo le elezioni potrà rivolgersi per chiedergli di riprendere la guida. «Chiuso!», lo dice perentorio. Tradendo un fastidio che non intende celare.

Il tempo del «nonno al servizio delle istituzioni» – come lo stesso premier si era definito nella conferenza stampa del 22 dicembre – si è consumato nelle settimane in cui i partiti hanno cercato disperatamente un nome che li unisse per la presidenza della Repubblica, con l’intento divenuto comune di sbarrare la strada per il Colle proprio all’ex presidente della Banca centrale europea. 

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Giorni come quelli lasciano, inevitabilmente, scorie. E quelle scorie sembra di vederle soprattutto nelle parole che Draghi riserva ai politici «che mi candidano per i posti più diversi in giro per il mondo». Il presidente del Consiglio ringrazia con un sorriso sarcastico, ma dice che – volendo – è in grado di trovarsi un lavoro da solo. E ripete – a una seconda domanda su un suo futuro in politica – «lo escludo, va bene? Mi sembra chiaro».

E così anche il sottosegretario Bruno Tabacci, che ancora ieri spiegava che dopo il voto non ci sarà storia e bisognerà richiamare lui a salvare il Paese, dovrà probabilmente farsene una ragione. Così come tutti coloro che usano la sua figura per dare valore a progetti che nascono già traballanti.

Draghi ha messo – con la conferenza stampa di ieri – dei paletti chiari: il governo andrà avanti con gli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza senza indugi e senza accettare ritardi. Senza rimpasti, anche, «la squadra non si cambia». Affronterà il caro-bollette e l’inflazione avendo ben chiara una cosa: «Bisogna puntare sulla crescita per sostenere il debito». È sicuro che i dati in arrivo da questo punto di vista siano buoni, ma consapevole di quante insidie ci siano dietro l’angolo. A partire dalla crisi ucraina e dai venti di guerra che metterebbero l’Italia in una situazione difficilissima.

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Chi ha parlato con il presidente del Consiglio traduce che il senso è esattamente questo: «Finisco il lavoro e me ne vado». Il che rende ogni scelta, ogni azione, più libera da qualsiasi condizionamento. Anche solo percepito. Ma se ci sono dirigenti di partito che festeggiano dicendo bene, «prima era un po’ distratto dalle aspettative sul Quirinale, adesso sarà più concentrato sull’azione di governo», ci sono anche leader preoccupati. Lo è ad esempio il segretario pd Enrico Letta, che vede come le tensioni già in corso non potranno che moltiplicarsi. E per la direzione dem della settimana prossima prepara un discorso utile a mettere in guardia da scenari di possibile instabilità.

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La sferzata del premier sul Bonus al 110 per cento, una misura che il presidente del Consiglio non ha mai amato e che ha già tentato di arginare, è solo la prima di scelte molto nette alle quali Draghi non intende sottrarsi. A impressionarlo sono stati i numeri delle truffe fatte attraverso la cessione a catena dei crediti di imposta, ma anche le relazioni molto chiare della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate. I 5 stelle si sentono sotto attacco, ma quel che ha detto il capo del governo lo pensa davvero: quella legge è stata scritta male e difesa peggio. La reazione indignata dei parlamentari M5S è già – a poche ore dalla conferenza stampa del ritorno – il primo elemento di fibrillazione. È facile ce ne siano presto altri, senza però che Palazzo Chigi cambi atteggiamento.

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