Giorgetti: «Stiamo drogando l’edilizia. Invece dobbiamo sostenere le nostre filiere industriali»
Bruxelles non impone l’auto elettrica: chiede di uscire dal motore a combustione tradizionale entro il 2035.
«No,
ma l’impostazione è chiara. Quando alla Cop26 di Glasgow c’è stata la
dichiarazione sull’ineluttabilità dell’elettrico, solo la Germania e noi
abbiamo votato contro».
Draghi era d’accordo?
«Mi
ha chiamato, mi ha chiesto perché mi ero opposto e gliel’ho detto.
Siamo per il principio di emissioni zero, ma sulla base della neutralità
tecnologica. L’idrogeno può diventare competitivo. E in Italia abbiamo
brevetti fra i più avanzati nei biocarburanti. Perché non viene
riconosciuto? E anche l’auto ibrida, che ora non piace, può avere un
ruolo. Soprattutto in assenza di una rete adeguata di colonnine di
ricarica. Con questa furia per l’elettrico ideologica, etica, rischiamo
l’autogol».
In Italia ci sono 450 imprese e 70 mila occupati nella produzione di componenti del motore tradizionale. Che sarà di loro?
«Se Volkswagen punta sull’elettrico, siamo molto esposti».
Eppure il governo non sembra avere una politica industriale. Neanche nel Piano di ripresa (Pnrr).
«Il
Pnrr si potrà ritoccare, perché il mondo cambia così in fretta che non
ha senso lasciare tutto fermo alla foto di un solo momento. Quanto alla
politica industriale, va sviluppata. Lo stiamo facendo».
Come?
«In
primo luogo dobbiamo reintrodurre incentivi per attivare il mercato di
tutti i veicoli ecocompatibili, non solo elettrici. Poi siamo molto
vicini, questione di pochi giorni, alla firma per la Gigafactory di
Termoli dove Stellantis farà le batterie. Ma la nuova filiera elettrica
richiederà comunque metà della manodopera oggi impiegata da quella
tradizionale. Le imprese dell’automotive vanno aiutate a riconvertirsi,
rendendo disponibili gli accordi di programma e i contratti di sviluppo.
Ma sono strumenti troppo lenti, burocratici. Questo settore va
finanziato massicciamente, lo abbiamo già chiesto al ministero
dell’Economia».
Per fare cosa?
«Incentivi
ad aggregarsi, ingresso nelle filiere a monte e a valle dell’elettrico.
Per esempio, nel riciclaggio delle batterie. O nella produzione di bus
verdi in Italia, altrimenti i 4 miliardi che abbiamo su questo nel Pnrr
finiremo per spedirli in Cina».
Comunque l’elettrificazione avanzerà. Noi dove la prendiamo l’energia? Anche qui la strategia non è chiara.
«Invidio
Emmanuel Macron, che annuncia sei nuove centrali nucleari. Da noi
purtroppo è un tabù. Eppure se ora tutte le macchine fossero elettriche,
non sapremmo come alimentarle. Dunque le rinnovabili sono una risposta,
ma non la sola. Per fortuna il gas è tornato fra le fonti ammesse in
Europa per la transizione. Dobbiamo diversificare al massimo i
fornitori, rafforzare i rigassificatori, aumentare la produzione
nazionale. Ma anche qui, niente illusioni: non si tornerà ai prezzi
bassi di due anni fa, perché la Cina deve uscire dal carbone e inizierà a
drenare molto gas».
Si pone il problema degli aiuti sul caro-bolletta. Quanti soldi ci sono?
«Non
si vuol fare uno scostamento di bilancio già a inizio anno, che invece
servirebbe, dunque si raschia un po’ il barile per trovare cifre
importanti anche se non risolutive. Tutti pensano all’industria
energivora classica, da aiutare. Ma anche per una pizzeria o una piscina
l’energia è il 30% del conto economico».
Non era meglio dare subito aiuti sul caro-bolletta selettivi, non anche ai benestanti?
«Sì,
anche se non è semplicissimo. Credito d’imposta al 20% sugli aumenti in
bolletta rispetto al 2019 si può aumentare in base alle risorse
disponibili. Di certo per distribuire reddito bisogna produrlo e se non
tuteliamo i settori industriali, non ci saranno risorse. I politici
dovrebbero andare nelle fabbriche a vedere cos’è la creazione di
ricchezza. Qui se un benestante si ristruttura casa a spese dello Stato
mentre l’industria non ce la fa a andare avanti, qualcosa non mi
quadra».
Che ne è del grande investimento nella produzione di chip che l’americana Intel doveva fare in Germania, Francia e Italia?
«Bruxelles
ha proposto un Chips Act, che sospende i vincoli sugli aiuti di Stato
in questo settore. Ma l’investimento di Intel in Italia ed Europa non è
solo un fatto industriale, è geostrategico. Spero che non prevalgano le
furbizie e gli egoismi nazionali, sarebbe inaccettabile».
Teme che la Germania si prenda tutto mettendo più soldi?
«Non ce l’ho con nessuno. Certo i tedeschi difendono bene i loro interessi».
Le diranno che lei è antimoderno, contro la transizione verde, antieuropeo.
«Per niente. Difendere il clima è necessario e l’Europa è la nostra risorsa. Ma non posso accettare che il prezzo siano milioni di disoccupati, con conseguenze sociali e quindi politiche molto serie. L’ho detto anche a John Kerry, l’inviato della Casa Bianca sul clima».
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