Le nostre ipocrisie e illusioni nazionali

di Ferruccio de Bortoli

Il Paese deve credere nell’inclusione. Non far finta, per esempio, che non esista già una classe media di immigrati. C’è ed è fortissima

A parlarne si perdono voti. E forse anche qualche amicizia. C’è un argomento che continua a costituire un inossidabile malinteso e a decretare il trionfo dell’ipocrisia nazionale: l’immigrazione. Un Paese che ha coscienza del proprio inesorabile declino demografico dovrebbe fare di tutto per attrarre immigrati, persino sceglierseli, e disciplinarne il flusso. E, soprattutto, essere una meta ambita (e lo sarebbe di conseguenza anche per gli italiani) non una terra di passaggio. Invece si rimuove il problema. O lo si solleva, in termini inutilmente difensivi per non dire peggio, solo quando compare all’orizzonte una nave carica di disperazione. Davanti al grido di un’umanità sofferente, noi quasi tutti figli di immigrati, ci dividiamo. Spesso voltiamo lo sguardo dall’altra parte. Ma l’Italia non è invasa, si sta semplicemente svuotando. Questa è l’amara verità. Sono diminuiti anche gli immigrati. Secondo l’ultimo rapporto della fondazione Ismu, gli stranieri presenti in Italia sono calati nell’ultimo anno del 2,8 per cento (5 milioni 756 mila). Stabili gli irregolari (518 mila).

In questi giorni famiglie e imprese affrontano, con crescente preoccupazione, i forti rincari dell’energia e delle materie prime. Un ostacolo alla ripresa economica, proprio ora che il virus arretra. Una minaccia al benessere familiare e alla vita di tante aziende. Ma c’è un’altra scarsità, più grave: quella di manodopera, qualificata e non. Mai stata così ampia. La differenza tra i due fenomeni è che il primo è destinato a rientrare, salvo maggiori e non indifferenti costi; il secondo assolutamente no. Almeno nel breve periodo. Anche se tornassimo d’incanto ad avere i tassi di natalità del Dopoguerra, occorrerebbero decenni. E nemmeno se alzassimo di colpo, quasi per miracolo, la qualità del nostro capitale umano che ci vede quanto a laureati agli ultimi posti in Europa. Ci vuole tempo e non ne abbiamo. La tragedia è che ci illudiamo di averlo.

Una lettura istruttiva ci viene dai dati Istat. In un Paese che invecchia, dal febbraio del 2020 ad oggi, abbiamo perduto 175 mila giovani tra i 15 e i 34 anni. Le persone occupate al di sotto dei 35 anni erano quasi 7 milioni nel 2008, allo scoppio della crisi finanziaria, nel dicembre 2021 sono poco più di 5 milioni. Abbiamo più anziani. E meno giovani, molti dei quali non trovano lavoro o hanno occupazioni precarie, pagate scandalosamente poco, mentre i più qualificati, quando non vanno all’estero, sono sommersi dalle offerte. Scelgono, non vengono scelti. Non era mai accaduto. Poi ci sono tanti lavori che gli italiani non vogliono assolutamente fare, quelli di molti loro padri o nonni migranti. Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, intervistato ieri sul Corriere da Federico Fubini, ricordava che lavora soltanto il 37 per cento dei nostri connazionali. Aggiungiamo noi, il 59 per cento tra i 15 e i 64 anni. Il lavoro non manca, volendolo, manca qualche volta la voglia di farlo.

Nell’ultimo bollettino di Unioncamere e Anpal le assunzioni a gennaio sono state 458 mila e si stima arriveranno a 1,2 milioni nel primo trimestre dell’anno. Molti (troppi) di questi contratti sono a tempo determinato. Ma le aziende non riescono a trovare il 38 per cento dei profili di cui hanno bisogno, soprattutto nelle costruzioni (58 per cento). Non ci sono tecnici informatici, attrezzisti, operai, artigiani, specie del legno, fonditori, saldatori. La richiesta di lavoratori immigrati è cresciuta del 59 per cento, largamente oltre gli ingressi programmati e quindi non trova soddisfazione. Ma ogni decreto flussi, che disciplina l’arrivo di lavoratori da altri Paesi, è visto come un cedimento controvoglia alla realtà, deciso nottetempo, di cui meglio non parlare. Quasi ci si vergogna.

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