L’Occidente e il gran ballo con l’orso post-sovietico

MASSIMO GIANNINI

Pensare la guerra è disumano. Pensarla qui ed ora, in un mondo piagato da un microscopico virus che ha sbriciolato il grande sogno d’immortalità del Superuomo Tecnologico, è addirittura impossibile. E invece siamo a questo. Nel cuore ferito della modernità, proprio quando avevamo creduto che la pandemia ci avrebbe costretto a ricostruire su basi radicalmente nuove il nostro modo di stare al mondo, accade l’impensabile: tacciono i virologi, muovono gli eserciti. Secondo la Casa Bianca, c’è già scritta una data: la guerra in Ucraina scoppierà mercoledì prossimo. Secondo il Cremlino, sono solo provocazioni americane: in agenda, almeno per quel giorno, i russi non hanno segnato alcun impegno. Sembra un film dei fratelli Cohen, purtroppo non lo è.

Le schermaglie tattiche tra Washington e Mosca vanno avanti da settimane. E da settimane ci siamo quasi auto-consolati, ripetendoci che Biden e Putin sono al solito wrestling, fatto solo di esibizioni muscolari. Utili per entrambi a dissimulare le difficoltà politiche interne con le velleità egemoniche esterne. Tutto questo rimane. Ma stavolta non siamo mai arrivati così vicini alla vera guerra. I tentativi diplomatici sembrano fallire, uno dopo l’altro. La missione russa di Macron è servita a poco, se non a confermare un protagonismo francese degno di miglior sorte. La missione americana di Scholz è servita ancora meno, se non a ribadire l’indecisionismo tedesco sul fronte orientale. E la telefonata finale tra Sleepy Joe e lo Zar Vladi, a quanto pare, si è esaurita in un drammatico scambio di accuse e improperi: “Se invadete la pagherete cara”, “Siete solo isterici”. Questo è il tenore.

Più uno scontro che un confronto. Su queste basi, tutto può succedere. Anche l’irreparabile.

Perché, oggi, Russia e Occidente dovrebbero “morire per Kiev”? Che Putin sia la minaccia è chiaro. È lui che in due mesi ha spostato 130 mila soldati lungo la frontiera ucraina. È lui che da Kalingrad sul Baltico al Mar Nero ha schierato contro le forze dell’Alleanza Atlantica gli armamenti più sofisticati, dai missili ipersonici Avangard agli Iskander, dagli S-400 ai P-800. È lui che ha consentito ripetuti cyber-attacchi ai sistemi informatici e di sicurezza dei Paesi europei. Lo ha fatto quasi alla luce del sole. Perché non accetta più l’Ordine Mondiale scaturito dalla fine della Guerra Fredda. Perché coltiva il miraggio irreale e inattuale di ripristinare la “Russia Storica”. Perché non si vede riconosciuta la sua pretesa “sfera d’influenza” nello spazio post-sovietico. Perché si sente sempre più assediato ai confini, e dunque rifiuta il diritto dell’Ucraina di entrare nella Nato, come già avevano fatto Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca nel 1999, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia ed Estonia nel 2004, Albania e Croazia nel 2009, Montenegro nel 2017 e Macedonia del Nord nel 2017. La Madre Russia attrae assai poco i suoi ex figli. Per questo soffre, strilla, fa la faccia feroce.

Ma oggi un blitz militare in Ucraina non conviene né a lui né a noi. Non parliamo di morti e feriti: è persino scontato, tanto quanto il fatto che la tragica certezza dei cosiddetti “danni collaterali” purtroppo non basta mai a dissuadere i popoli in armi. Parliamo anche solo di ricadute economiche: quella che è già stata ribattezzata “guerra del gas” porterebbe solo più guai. Gazprom controlla la quasi totalità del mercato: vende gas per 1000 miliardi di dollari alla Ue, per un quantitativo pari al 50 per cento del suo approvvigionamento totale. Nell’ultimo mese il gigante russo ha ridotto le forniture del 40 per cento, e nell’intero anno aumenterà il prezzo del 58 per cento. Per quanto squilibrato a favore del monopolista, bloccare questo interscambio avrebbe effetti devastanti. Sicuramente per l’Europa, che resterebbe al buio. Ma anche per Mosca, visto che Gazprom vedrebbe sfumare l’assegno da 7 miliardi che l’Unione gli versa ogni mese, e sarebbe costretta a intaccare le riserve da 600 miliardi di dollari detenute dalla Banca centrale russa. E parliamo anche solo di implicazioni geo-strategiche. Per l’Europa salterebbero tutti gli obiettivi del cosiddetto “triangolo di Weimer” (riunito la settimana scorsa da Macron con il cancelliere Scholz e il primo ministro polacco Duda) e del “quartetto Normandia” (ipotizzato sempre da Macron e Scholz, sul “Formato” che portò agli accordi di pace di Minsk del 2015 insieme a Putin e al presidente ucraino Zelenski). Per la Russia salterebbe qualunque possibilità di allontanare Kiev dall’Alleanza Atlantica e di costringerla, insieme alle altre repubbliche separatiste, a varare una riforma costituzionale e uno statuto autonomo. Paradossalmente, un’offensiva militare russa in Ucraina aiuterebbe la Nato e la Ue a uscire dallo stallo, ridando un senso alla prima e una missione alla seconda. La speranza è che l’Autocrate del Cremlino se ne convinca, e si fermi alla pur rovinosa strategia “ibrida” che ha adottato finora: truppe massicce ai confini, uso politico dei rubinetti del gas, attacchi informatici diffusi.

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