Gas, ecco perché oggi costa così caro e qual è il piano del governo per abbassare il prezzo
Alessandro Barbera
Esterno giorno numero uno, Casalborsetti, Ravenna, ieri. Legambiente e altri gruppi ambientalisti manifestano per il no alle energie fossili. Esterno giorno numero due, Kiev, Ucraina. Migliaia di persone scendono in piazza contro i carri armati russi ammassati ai confini del Paese. In mezzo a queste due scene solo apparentemente lontane c’è la risposta alla più drammatica emergenza energetica dagli anni Settanta.
Se il gas oggi costa fino a quattro volte quel che costava due anni fa, lo si deve a molte ragioni: il calo della produzione di vento nei mari del Nord, l’aumento della domanda trainata dalla ripresa mondiale, la riduzione dell’offerta alimentata dalla crisi con Mosca, che vende all’Europa il quaranta per cento di tutto il metano consumato. Nessun Paese europeo dipende dalle importazioni quanto l’Italia: su settanta miliardi di metri cubi, l’anno scorso ne abbiamo prodotti nei nostri confini 3,6 miliardi. Non è sempre andata così: fino al 1995 dai mari italiani ne arrivavano venti miliardi. Allora nessuno dava credito a ciò che nel frattempo è accaduto: il gas, la meno inquinante delle fonti tradizionali di energia, è diventato il combustibile più utile alla transizione energetica.
Fronteggiare gli aumenti dei prezzi sui mercati è impossibile per chiunque. Di più: la crisi con Mosca costringe l’Unione a darsi la zappa sui piedi, minacciando lo stop al nuovo gasdotto Nord Stream 2 che unisce la Russia all’Europa senza passare dai confini ucraini. E così il governo Draghi, fra i molti palliativi all’aumento dei costi, ora vuole tornare all’antico, raddoppiando la produzione nazionale di gas ad almeno otto miliardi di metri cubi l’anno. A farsi carico dell’inevitabile è Roberto Cingolani, il ministro voluto e disconosciuto dal mondo Cinque Stelle. Fra i malumori ambientalisti, lo scorso settembre ha imposto ai suoi tecnici l’aggiornamento di un piano sconosciuto ai più: si chiama Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai). Dietro l’orribile acronimo e fra 213 pagine di tecnicismi c’è la fotografia di ciò che si può fare o non fare nei mari italiani. L’operazione non è semplice né rapida, ma se avviata può contribuire a far scendere in maniera stabile i prezzi.
Oggi i giacimenti di gas sono concentrati lungo i mari territoriali fra il Veneto e l’Abruzzo. Qualche trivella si scorge al largo di Gela, ma sotto i fondali dell’Alto Adriatico e nel canale di Sicilia ci sono molti giacimenti abbandonati negli ultimi vent’anni. I contatti fra il governo e l’Eni per raggiungere un accordo vanno avanti da Natale. Per raddoppiare la produzione occorrono almeno due anni, un tempo lunghissimo rispetto all’emergenza di questi giorni. Ma il piano di Draghi e Cingolani ha una possibile e rapida conseguenza: la contropartita chiesta a Eni per concedere più estrazioni è quella di calmierare il prezzo del gas nazionale. Più o meno quel che hanno fatto i governi di Parigi e Berlino con i rispettivi produttori interni.
Quando c’è di mezzo l’equilibrio fra domanda di energia e ambiente la politica è sempre timida. Il piano per la transizione energetica non veniva aggiornato dal 2019, quando il Paese era governato da Giuseppe Conte e dall’alleanza gialloverde. I Cinque Stelle sono sempre stati contrari alle trivellazioni, salvo scoprire ex post quel che sarebbe costato alle tasche degli italiani.
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