Trent’anni di Mani Pulite, il malaffare sgretola l’Italia

Massimo Giannini

Un fiume placido in Olanda e lo sciacquone di un water in Lombardia. Il Grande Lavacro del 1992, che cambia per sempre la Storia d’Italia, scorre tutto qua dentro. Nessuno ci pensa, ma è andata così. Il 7 febbraio di quell’anno di fango, nella ridente cittadina di Maastricht adagiata sulle rive della Mosa al confine col Belgio e la Germania, Giulio Andreotti firma il Trattato di Maastricht, insieme ai ministri del Tesoro Carli e degli Esteri De Michelis. Dieci giorni dopo, il 17 febbraio, il “mariuolo” Chiesa tampinato dai carabinieri spediti al Pio Albergo Trivulzio da Di Pietro si rifugia al cesso e prova inutilmente a nascondere i 37 milioni di tangente che ancora non gli avevano scoperto. Sono i due passaggi-chiave della Repubblica, sempre sospesa tra l’abisso e la vetta, il pozzo e il cielo. L’alfa e l’omega di una vicenda parallela, l’inizio inconsapevole di un tentativo di redenzione finanziaria e la fine certa di un sistema di malaffare politico. Senza neanche rendersene conto, il Belpaese marcio, proprio mentre si mostra al mondo nella sua miserabile cialtroneria, si immerge nell’acqua di un’Europa che in trent’anni ci chiederà conto di ogni nostra nefandezza.

L’Italia del ’92 è un Paese a pezzi e non lo sa. A Palazzo Chigi sverna l’ultimo Andreotti, e mentre l’allora sconosciuto trafficante socialista viene trasferito in ceppi a San Vittore, Craxi racconta la prima bugia: “Mi preoccupo di creare le condizioni perché il Paese abbia un governo che affronti gli anni difficili che abbiamo davanti, e mi ritrovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine del partito…”. Magari fosse vero. Prima ancora che il Pool di Milano lo metta in mora e poi in manette, il sistema sta già crollando dalle fondamenta. La politica è alla frutta, l’economia è allo stremo. Il governo del Divo Giulio è ormai agli sgoccioli. Il Caf, Comitato d’affari Craxi-Andreotti-Forlani che ha fatto e disfatto nei dieci anni precedenti, è ormai morente. La formula del pentapartito agonizza. E dopo i primi arresti, la giovane Lega Nord di Umberto Bossi e Gianfranco Miglio gonfia la giugulare al grido di battaglia che poi gli si strozzerà momentaneamente in gola nel ’94, quando accompagnerà la titanica “discesa in campo” del Cavaliere: “Roma Ladrona”.

Mentre Mani Pulite allarga il fronte delle indagini, degli avvisi di garanzia e dei mandati di cattura, il quadro politico, paurosamente, “si sfarina”, per usare la celebre formula di Rino Formica.

Arrivano stanche le elezioni del 5 aprile, dove fa capolino un astensionismo mai conosciuto dalle nostre parti. La Dc perde più di 4 punti e scivola al 29,6 per cento, il Psi cede solo un punto nonostante la memorabile satira del tempo (una su tutte, memorabile: “Scatta l’ora legale: panico tra i socialisti”). Pri, Pli e Psdi, come si dice nel gergo dell’epoca, “tengono”. Il Pds di Occhetto, nonostante la coraggiosa Bolognina, brucia 5 punti. Ma è il Carroccio che sfonda le porte di Tangentopoli assediata, passando da 2 a 80 parlamentari in un colpo solo. Invece di capire l’antifona, i leader scalcinati e braccati dai pm e dai cittadini sempre più indignati si rinchiudono nella fortezza e impapocchiano un penoso “quadripartito”, dal quale solo i repubblicani di La Malfa hanno il buon gusto di sfilarsi.

Nel frattempo c’è da eleggere il presidente della Repubblica, perché il 28 aprile si dimette il Grande Esternatore, Francesco Cossiga. E lì si consuma un’altra autodafè. Tra i partiti esanimi volano gli stracci. Cionondimeno si tenta l’ennesima pastetta: prima avanza la candidatura di Forlani, poi quella di Andreotti. E chissà, magari uno dei due l’avrebbe pure spuntata, se nel frattempo a macchiare di rosso quell’annus horribilis non ci si mettesse anche la Mafia, che con tutta evidenza non uccide solo d’estate. Dopo aver fatto fuori prima Salvo Lima, poi il maresciallo Giuliano Guazzelli, Cosa Nostra osa l’inosabile.

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