Trent’anni di Mani Pulite, il malaffare sgretola l’Italia
La strage di Capaci, il 23 maggio, stravolge vite e coscienze di una nazione prostrata e inebedita. Serve il massacro di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i cinque uomini di scorta per spingere l’establishment a un sussulto: sul Colle sale un galantuomo, Oscar Luigi Scalfaro. Sarà un bene, anche in vista delle spallate prossime venture che il berlusconismo da combattimento proverà ad assestare alle istituzioni. Anche se non basterà a placare la sete di sangue dei corleonesi di Totò Riina e della sua Cupola, che con l’assassinio di Paolo Borsellino a via D’Amelio, il 19 luglio, completeranno di lì a poco il loro attacco al cuore dello Stato.
Con la politica in disarmo, e la frusta di Borrelli e dei suoi pm che continua a flagellare le nomenklature, frana anche l’economia del Paese. Archiviato Andreotti, il governo di Giuliano Amato si insedia a fine giugno. E mentre prova a schivare la gragnuola di avvisi di garanzia che piovono addosso ai suoi ministri e sottosegretari, vara il primo salasso da 30 mila miliardi di lire, e sono già dolori: patrimoniale sulla casa e prelievo forzoso del 6 per mille, dalla sera alla mattina, sui depositi bancari. “Una rapina, intollerabile e incostituzionale”, diranno in molti. “Una sana sveglia a un’Italia persa nei suoi sogni”, diranno altri. Più giusta la seconda, con tutta evidenza: in quel disastroso ’92 il debito pubblico italiano sfonda per la prima volta il 100 per cento del Pil, ha un deficit del 9,9 per cento e un’inflazione al 12. Un Paese in bancarotta. E anche questo è un esito di Tangentopoli, architrave della “democrazia del debito” nella quale le Partecipazioni Statali diventano la mangiatoia dei partiti, l’evasione fiscale è quasi incentivata e sempre condonata e i Bot al tasso di interesse del 15 per cento diventano strumento di consenso e voto di scambio. Sempre a carico delle future generazioni.
Non può reggere. E infatti non regge. Mentre fioccano gli avvisi di garanzia, a carico dei segretari e dei tesorieri, dei sindaci e dei parlamentari, la povera liretta paga pegno, com’è inevitabile per una nazione in bolletta. Dopo un attacco speculativo senza precedenti sui mercati internazionali, il 13 settembre Amato va in tv ad annunciare che la lira sarà svalutata del 3,5 per cento. La vende come una grande notizia. Quasi un atto di forza. È l’esatto contrario: è la resa di uno Stato Fallito. Nonostante le difese erette dalla Banca d’Italia, di lì a poco la nostra valuta è costretta all’ultimo stigma: deve uscire dallo Sme, il Sistema Monetario Europeo, e vagare sola e sperduta fuori dal club delle monete che contano. Il corollario della resa, inevitabile, è la madre di tutte le stangate: solo 4 giorni dopo, il 17 settembre, il Dottor Sottile propina agli italiani una maxi-manovra da 93 mila miliardi di lire. Dentro c’è di tutto: il congelamento delle pensioni di anzianità, la tassa sui telefonini, il taglio draconiano della spesa sanitaria, il blocco dei contratti nel pubblico impiego. Come dire: dopo la galera per i praticanti della mazzetta, la carestia per i postulanti dello Stato Pantalone.
Perché a voler trarre qualche morale dalla favolaccia tricolore del ’92, forse se ne possono indicare un paio. La prima è questa. Dalla fine degli Anni ’70 e per tutti gli Anni ’80 abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, e al di fuori degli standard etici di una moderna democrazia europea. Lo Stato non eravamo noi: era il nemico da fregare, o la mucca da mungere. Le tasse si pagavano “bestemmiando lo Stato”, come scriveva Piero Gobetti già negli Anni ’20. Il potere politico non solo consentiva, ma in qualche modo agevolava il meccanismo. Il potere economico cedeva, o comunque partecipava al gioco. Mani Pulite non è stato un golpe, ma l’esito scontato e prevedibile di un collasso del sistema dal quale forse non ci siamo mai del tutto ripresi. Con i suoi errori, le sue forzature, i suoi eccessi nell’uso della carcerazione preventiva, il Pool non ha compiuto “atti sediziosi” né “persecuzioni”. Ha fatto quel che doveva e poteva. Talvolta supplendo, talvolta esagerando (vedi i drammatici comunicati contro il decreto Biondi). Certo da lì, sull’acqua di palude nella quale affondavamo, partono le prime increspature dell’anti-politica, che poi avrebbero prodotto a ondate successive il Ventennio populista del Cavaliere, l’avvento dei tecnici alla Mario Monti, il grillismo dei Vaffa e dell’uno vale uno, il sovranismo di Salvini e Meloni. Ma per favore, di questo non diamo colpa alle “toghe rosse” immaginarie di quel tempo. Ringraziamole, piuttosto.
La seconda morale è quest’altra, e forse ha a che vedere con la prima. Caduti nel fango, abbiamo provato a rialzarci. Stanchi, sporchi, ammaccati, impoveriti. Ne abbiamo viste e vissute ancora tante, da allora. Ma in qualche modo siamo andati avanti. Chi ci ha salvato, dopo il bagno iniziale di Mani Pulite? Siamo sinceri con noi stessi. Ieri come oggi, è il “vincolo esterno”, il nostro vero salvatore. Torniamo così al fiume olandese e allo sciacquone del water: i due elementi si tengono. Se in quel misterioso attimo di estemporanea lucidità o di momentanea incoscienza proprio Andreotti, il Belzebù archetipico del consociativismo italico, non avesse messo la firma su quel Trattato di Maastricht che istituì la moneta unica e ci inchiodò ai vincoli che il farne parte ci imponeva, la scoperta di quella mazzetta dalla quale venne fuori Tangentopoli non sarebbe servita a niente. Senza l’euro, senza l’Europa, noi non saremmo mai usciti da quella cittadella infame, dove consenso e corruzione erano parte dello stesso mercimonio. Non avremmo mai raggiunto, il 31 luglio di quello stesso 1992, gli accordi sul costo del lavoro che di fatto abolirono la scala mobile. Non saremmo mai entrati a testa alta, con il gruppo dei Paesi fondatori, nella moneta unica del 2001. Non avremmo resistito alle crisi del 2008 e del 2011. E oggi non avremmo mai ottenuto i 200 miliardi del Next Generation Eu, l’ultimo treno sul quale possiamo salire per rifondare e modernizzare davvero il Sistema-Paese.
In quel febbraio di 30 anni fa, tra i nostri antichi vizi ci imponemmo, quasi nostro malgrado, una nuova virtù. I primi non sono scomparsi, la seconda non ha trionfato. Ma insomma, senza la Madre Europa ci poteva andare molto molto peggio. Lo scrisse nelle sue memorie, Guido Carli, che di Maastricht fu il vero padre, insieme a Ciampi e, pensate un po’, a Mario Draghi: “In fondo, Tangentopoli non è che un’imprevista opera di disinflazione di un’economia drogata, un completamento inconsapevole del Trattato di Maastricht”. Aveva ragione da vendere, quel vecchio, grande ex banchiere centrale. Anche lui, un altro tecnico prestato alla politica. —
LA STAMPA
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