Bocciato il referendum sull’eutanasia. Tra l’idea etica dello stato e l’idea radicale della libertà vince la zona grigia
Il primo uovo (copyright di Giuliano Amato), inteso come quesito referendario sull’eutanasia si è rotto. La Corte, chiamata a valutare la costituzionalità della cosiddetta normativa di risulta – come cioè uscirebbe la legge a seguito dell’abrogazione proposta dal quesito referendario – lo ha giudicato inammissibile. Perché con l’abolizione parziale dell’articolo 579 del codice penale, che disciplina l’omicidio del consenziente non sarebbe “preservata la tutela minima dei requisiti della vita umana con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.
Prevedibile, dopo che l’ufficio centrale del referendum presso la Cassazione ha respinto la proposta dei promotori che avrebbero voluto integrare, con un sottotitolo esplicativo, il titolo del quesito: “Disponibilità della propria vita mediante consenso libero, consapevole, informato”. In sostanza, la ratio consisteva nel riconoscere pari dignità costituzionale tra diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione di sé. Indicazione giudicata costituzionalmente non neutrale né ricavabile dalla sentenza del 2019 sul caso Cappato qualificata come suicidio assistito (non omicidio del consenziente). In tal modo la Corte ha respinto l’assunto di fondo dei promotori, per i quali il solo ambito in cui era applicabile il consenso prestato era la legge n.219 del 2017 in tema di consenso informato e testamento biologico.
Era forse il quesito più popolare, che ha ottenuto oltre un milione di firme online, ma anche il più delicato, in quanto fondato su un’idea radicale di libertà, fino all’autodeterminazione assoluta di sé e del proprio corpo specularmente opposta all’idea etico-paternalistica di Stato, che in comune hanno l’esclusione di una “zona grigia”. È presumibile che l’impostazione data dalla Corte sia proprio quella di una zona grigia dove lo Stato si ritrae ma non perché ci siano diritti individuali indisponibili quanto piuttosto perché alcune scelte non possono essere oggetto di interventi penali e dunque liberi. In quella zona c’è il confine tra malattia irreversibile e la non malattia. La sentenza spiegherà le motivazioni, ma è chiaro, dalla valutazione del quesito, che ha prevalso l’opinione che la normativa di risulta avrebbe introdotto una legislazione non tanto sull’eutanasia del malato, ma sull’omicidio del consenziente, depenalizzandolo, anche nel caso di quello sano.
La Corte è la Corte, chiamata solo a pronunciarsi sulla costituzionalità di quel che resta della legge a seguito dall’abrogazione prevista dal quesito. E se proprio si vuole trovare “il pelo nell’uovo”, che il neo-presidente aveva invitato a non cercare favorendo il pronunciamento popolare sui quesiti, è proprio nella difformità tra l’insolito auspicio e il pronunciamento, forse anche frutto della presenza cattolica nella Consulta. Ma la questione è soprattutto tutta politica. Che racconta, a questo punto, di uno stallo perfetto: la Corte che, con la sentenza sul caso Cappato del 2019 invita il Parlamento a legiferare sul fine vita entro un anno; il Parlamento che, oltre ogni limite della decenza, dopo tre anni ancora non recepisce le indicazioni; un referendum, sia pur border line, proposto per superare lo stallo col pungolo del voto popolare; il referendum dichiarato inammissibile. Si ritorna così al Parlamento, a questo Parlamento, e c’è da scommettere che anche chi si è rammaricato per la bocciatura odierna non avrà altrettanta sollecitudine, nell’anno elettorale, a mettere mano alla materia.
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