Proteggere i salari dall’inflazione senza azzoppare le imprese si può. Ci sono due strade

In alcune aziende li chiamano “gli stipendi mangiati”. La busta paga dei lavoratori è la stessa, ma il valore di quello che si sono ritrovati in tasca negli ultimi mesi no. Con gli stessi soldi si comprano meno cose. A mangiare il potere d’acquisto è l’inflazione, che a gennaio è schizzata al 4,8%, mai così alta da 26 anni. E l’impoverimento è in un altro numero, quello della crescita dei salari, che corre molto più lento: in un anno, dal 2020 al 2021, è stata dello 0,6 per cento. Il saldo negativo di questo incrocio ha uno scudo, che è l’esclusione della componente energetica dal calcolo del salario all’interno dei contratti. Insomma le perdite per i lavoratori potevano essere molto più consistenti considerando che è l’energia a gonfiare l’inflazione, ma l’aumento totale dei prezzi è così forte che ha inclinato questa protezione. Un bel problema per un Paese come il nostro che già si trascina dietro una lunga stagione di stagnazione salariale. E le tensioni tra i sindacati e Confindustria, divisi nelle soluzioni, non aiutano a trovare una soluzione. Ci sono però degli spazi per uscire da questo cortocircuito.

Alzare i salari, adeguandoli all’inflazione, potrebbe apparire come la soluzione più facile, ma questo scenario apre almeno due ordini di problemi. Il primo è rappresentato dai costi maggiori che dovrebbero sostenere le imprese a fronte di un’inflazione che pesa sui processi di produzione dato che ad aumentare sono anche i prezzi delle materie prime, oltre al fatto che il gas che costa di più ha fatto lievitare anche le bollette delle aziende. Il secondo, collegato al primo, sarebbe addirittura controproducente per gli stessi lavoratori. È la cosiddetta spirale: i salari aumentano, il lavoratore ha più soldi a disposizione, ma l’impresa scarica il maggiore costo sostenuto per gli stipendi sui beni che produce. Quando il lavoratore li compra spende di più rispetto a prima e quindi brucia un guadagno che quindi era solo apparente. Ora è evidente che tra Cgil, Cisl e Uil da una parte e viale dell’Astronomia dall’altra, nessuno vuole farsi male. I primi hanno la necessità di dare una risposta quanto più tempestiva possibile ai lavoratori che fanno riferimento ai contratti scaduti, ma anche a quelli già rinnovati senza considerare la fiammata dell’inflazione. Gli industriali, invece, devono tutelare i bilanci già appesantiti da una bolletta energetica che quest’anno toccherà quota 37 miliardi. 

Il discrimine dell’intervento è rappresentato dalla durata e dall’intensità dell’inflazione, parametri oggi sono inseriti in un quadro di incertezza che rende al momento impossibile fissare con certezza una data di ritorno a livelli più contenuti e quindi misurare la resistenza della perdita attuale dei salari. Ma nell’attesa cosa si può fare? Huffpost ha scelto farsi guidare nell’analisi delle soluzioni da Andrea Garnero, economista dell’Ocse in sabbatico di ricerca, e da Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro alla Bocconi. “Il dibattito – spiega Garnero – non ha inquadrato il tema della produttività, ma il problema tra i salari e l’inflazione è quando la crescita dei primi supera quella della seconda. Se invece c’è una crescita della produttività, il salario può riflettere questa migliore produttività senza che abbia un impatto sui prodotti. Il punto di incontro tra Landini e Bonomi si può trovare se si lavora sul parametro della produttività”. Ma, come ricorda l’economista, l’Italia ha un problema di produttività stagnante da molti anni: “La cerchiamo da vent’anni e sicuramente non si può attivare in pochi mesi, ma c’è la speranza, non vana, che le riforme e gli investimenti del Pnrr possano costituire una rottura”. 

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