Proteggere i salari dall’inflazione senza azzoppare le imprese si può. Ci sono due strade

Guardare alla produttività significa superare il dibattito tra chi sostiene che i salari devono recuperare l’inflazione in automatico e chi invece spinge in direzione opposta. Ma perché può essere una situazione win-win, cioè vantaggiosa sia per i lavoratori che per il datore di lavoro? La risposta è nella natura stessa della produttività che abbassa i costi dell’impresa e può permettere di bilanciare un aumento del costo del lavoro. Prendiamo il caso di un operaio. Se la produttività aumenta, significa che in un’ora produrrà due pezzi invece che uno. Un aumento di stipendio, che risolverebbe il tema della perdita del suo potere d’acquisto, sarebbe riequilibrato per l’impresa da maggiori entrate perché potrebbe vendere due pezzi e non uno. Insomma, a fronte di un costo maggiorato per pagare l’aumento dello stipendio, si ritroverebbe con un incremento delle entrate. Scendendo in una dimensione ancora più vicina alla vita lavorativa, Garnero propone anche la possibilità di rivedere l’Ipca, l’indice che viene preso in considerazione nei contratti quando si tratta di stabilire la parte retributiva. “Bisogna superare una visione statica: settore per settore, azienda per azienda, si può fare una valutazione per andare oltre questo indice, provando ad avvicinarsi a un’inflazione che include anche gli energetici, in cambio di misure che incidono sulla produttività come l’assenteismo”.

Del Conte propone invece di ritornare al modello adottato nel 1993. “Con il Patto per la politica dei redditi e lo sviluppo – ricorda – siamo passati da un meccanismo di recupero automatico dell’inflazione, per legge, a uno di recupero ex post”. Fu il nuovo corso dopo l’addio alla scala mobile, la ricetta fallimentare per i salari falcidiati da un’inflazione che correva a due cifre. Riproporla significherebbe riattivare la spirale, con le conseguenze già elencate. Lo strumento tecnico da adottare secondo Del Conte, invece, si chiama contrattazione con riserva di conguaglio. In pratica si stabilisce oggi un costo del lavoro sulla base di un’inflazione programmata e, tra due o tre anni, al termine del periodo coperto dalla durata del contratto, le parti si rivedono per verificare quanto quella stima si è avverata o quanto, al contrario, si è discostata dall’inflazione reale: l’eventuale differenza viene compensata con un aumento dei salari. “In questo modo – spiega – la spirale si rompe perché l’aumento subentra ex post”. Prendiamo il salario di un operaio e un’inflazione al 4% come dato annuale. Nel contratto che si attiva per il prossimo biennio, nella parte retributiva sarà contenuta una quota pari al 2 o al 3 per cento. Con un ciclo economico migliore, insieme a politiche di mitigazione degli effetti dell’inflazione, alla fine dei due anni potrebbe anche non esserci bisogno di aumentare il salario. Se invece le cose si dovessero mettere male, allora l’1 o il 2% verrebbe restituito a consuntivo, inserendolo nella busta paga, come una sorta di arretrato.

Il recupero ex post eviterebbe anche un effetto collaterale pesantissimo rispetto all’adeguamento automatico dei salari all’inflazione. Lo spiega sempre Del Conte: “L’adeguamento automatico diventerebbe inflazione, perdendone il controllo. Se aumenti il nominale disponibile spendi di più, quindi i prezzi aumentano, in più aumenta il costo del lavoro, l’inflazione corre in avanti”. L’adeguamento a consuntivo è un sacrificio per il lavoratore, ma è uno sforzo fatto prima per ridurre un danno, molto più elevato, che si presenterebbe dopo. Prima del 1993, l’inflazione stessa mangiava il mega aumento fatto per tenere il passo dell’inflazione molto alta. Erano, di fatto, soldi finti. La scelta adottata trentadue anni fa dal governo Ciampi inaugurò la stagione della moderazione salariale. In ballo c’erano l’ingresso nell’euro, i parametri di Maastricht, la necessità di superare definitivamente la logica della scala mobile per dare un segno di discontinuità sulle politiche inflazionistiche. Per alcuni, però, è stato l’inizio della grande depressione dei salari. Ma l’alternativa ha fatto danni enormi ai lavoratori. 

Ma fino a quando i salari potranno resistere al caro prezzi senza esserne travolti in maniera incisiva, considerando che le buste paga comunque si stanno già asciugando? Garnero individua due scenari. “Quello migliore – spiega – è che i tassi di inflazione rientrino su numeri più contenuti nei prossimi mesi. In questo modo, con un minimo aggiustamento, i salari potranno ritrovare il loro potere d’acquisto in un paio d’anni. Se insomma tutto torna a livelli normali dopo la fiammata, e non tutto viene ribaltato sui consumi finali, la questione diventa gestibile”. Il secondo scenario è quello negativo, se cioè l’inflazione resta elevata ancora a lungo. “I salari, anche negoziati a un livello più sostenuto, non porterebbero al recupero. In questo caso partirebbe il disancoramento dalle aspettative e potrebbe partire la spirale. La lezione di Tarantelli (l’economista ucciso nel 1985 dalle Brigate Rosse ndr) negli anni Settanta è considerare una visione di breve periodo il pensare che il potere d’acquisto si riacquista indicizzando all’inflazione attesa quello che è il salario. Così si rischia di far partire una rincorsa perenne in cui i lavoratori non guadagnano nulla, anzi ci perdono in potere d’acquisto e posti di lavoro”.

Quello dei salari che hanno perso potere d’acquisto è un tema che si pone oggi che l’inflazione si fa sentire. Ma soffrono di una stagnazione che dura da tempo. Tolto il 2020, viziato dalla pandemia, e in attesa dei dati del 2021, ci sono quelli del 2019. Il salario lordo annuale per un dipendente full time in Italia è stato di circa 30mila euro. È cresciuto di solo il 3,1% dal 2000. Lo stesso tipo di salario in Germania è stato pari a 42.400 euro, in Francia a 39.100 euro. Le percentuali di crescita sono state decisamente più elevate, rispettivamente del 18,4% e del 21,4 per cento. E prima del Covid le cose non andavano meglio: l’Italia era l’unico Paese tra le maggiori economie dell’eurozona a non avere ancora recuperato i livelli salari precedenti al 2008, quando scoppiò la grande crisi. E i salari sono anche disallineati rispetto al lavoro svolto. Hanno importi esigui: su 15,9 milioni di dipendenti privati, 5,2 milioni sono a un livello inferiore ai 10mila euro lordii all’anno. I full-time a tempo indeterminato e continui hanno un salario medio di 36.200 euro, con la nostra categoria più alta che guadagna in media meno del salario medio tedesco e francese. 

Nella discussione complessa sui contratti che devono tenere conto dell’inflazione ci sono anche questi numeri. Sempre che i contratti si riescano a rinnovare. Il database del Cnel, che li classifica, ne conta 992 al 31 dicembre scorso: 622 di questi, pari al 62,7%, risultano scaduti. E poi ci sono i 202 contratti scaduti da oltre cinque anni e i 42 da dieci anni e più. Ancora 138 contratti scadevano l’anno scorso e però non sono stati ancora rinnovati, mentre quest’anno quelli in scadenza sono 122. Per molti dei contratti scaduti da tempo non si hanno più notizie. Alcuni sono stati assorbiti in altri contratti, altri fanno riferimento a uno o due lavoratori. Il lavoro pubblico, che ha una platea di 3,2 milioni di dipendenti, quindi molto più limitata rispetto a quella del privato, sta marciando a un buon ritmo. Il contratto delle funzioni centrali (ministeri, Agenzie ed enti pubblici non economici) è stato rinnovato a gennaio, quelli della scuola e degli enti locali si dovrebbero chiudere in un paio di mesi. Quelli gestiti direttamente dalla Funzione pubblica, cioè sicurezza e difesa, sono chiusi oppure in fase di trattativa avanzata, come quelli dei Vigili del Fuoco e dei prefetti. Più indietro quello della scuola dato che manca ancora l’atto di indirizzo del ministro dell’Istruzione. Il privato, invece, fa più fatica. La partita dei salari passa anche dalla grande questione, irrisolta, della rappresentanza. 

L’HUFFPOST

Rating 3.00 out of 5

Pages: 1 2


No Comments so far.

Leave a Reply

Marquee Powered By Know How Media.