A trent’anni da Mani pulite voterò sì ai referendum (ma non ci credo)

di Mattia Feltri

La coincidenza fra il trentennale di Mani pulite e l’ammissione dei referendum sulla giustizia non porta con sé soltanto la suggestione del sincronismo: porta trent’anni di disastrosi guasti irrisolti da una politica imbelle, ma pure da un giornalismo che ancora oggi indugia nell’euforia della rivoluzione dell’onestà – da Di Pietro a Di Battista non è un triplo salto mortale, a pensarci bene – e da un’opinione pubblica attraversata dal brivido del riscatto, e dell’autoassoluzione, soprattutto quando viene a sapere di un politico intrappolato nell’avviso di garanzia; la sentenza, specie se di non colpevolezza, è un accidente futuribile. Lo è per le procure, per noialtri dell’informazione, per il pubblico pagante. Conta soltanto l’ordalia purificatrice.

E l’euforia va avanti, nelle celebrazioni entusiastiche di questi giorni d’approccio alla ricorrenza (domani) dell’arresto di Mario Chiesa, nelle quali difficilmente vi capiterà di imbattervi nel ricordo dell’abnormità del giudice unico, espressione non mia ma di Guido Salvini, magistrato milanese negli anni in cui si sgominava Tangentopoli. Pochi mesi fa, Salvini ha scritto che il pool della procura si era dotato irritualmente (eufemismo) di un unico giudice delle indagini preliminari, diciamo un gip di fiducia, cui spettò di misurare e valutare ognuna delle migliaia di richieste arrivate dalla squadra antimazzetta di Francesco Saverio Borrelli. A voi sembrerà un dettaglio ma è, invece e appunto, un’abnormità, perché il gip deve verificare la legittimità di ogni passaggio dell’inchiesta, la sua terzietà è a garanzia dell’indagato e dunque di noi tutti, mentre il nostro gip per anni fu l’unico fidato tenutario delle carte di Mani pulite: centinaia e centinaia di indagati, che spesso nulla avevano da spartire l’uno con l’altro, tutti passati dal suo largo setaccio. Salvini segnalò l’abnormità agli uffici deputati trent’anni fa, ma non se ne curò nessuno, e qualche giornalista – pochi eh – ne scrissero sui loro giornali guadagnandosi l’accusa di spacciatori di veleni.

L’episodio dimostra la necessità della separazione delle carriere, sebbene io abbia sempre pensato fosse più utile la separazione dei palazzi, almeno da quando, giovane cronista, vedevo pm e gip darsi appuntamento in corridoio e andare al bar di modo che il pm, davanti a un caffè, avrebbe meglio spiegato la sua inchiesta al collega. Ora voteremo per la separazione delle funzioni – una forma attenuata, diciamo così – sebbene i magistrati vi si oppongano perché ne potrebbe conseguire la nascita di due diversi Csm, uno per giudici e l’altro per i pm. E sarebbe, dicono, l’introduzione al controllo dei pm da parte della politica, e addio con sacrilegio all’indipendenza della magistratura. Pure questa dell’indipendenza della magistratura l’avrete sentita miliardi di volte, meno probabile vi abbiano specificato che ovunque nel mondo le democrazie garantiscono l’indipendenza ai giudici, mentre un controllo politico dei pm c’è ovunque, solido nei paesi anglosassoni, solo più attenuato in Germania, Francia, Spagna.

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