Conseguenze economiche di una guerra senza vincitori
Ma nel Disordine Mondiale in cui viviamo non sempre ciò che è razionale è reale. L’Ovest è obbligato a rispondere alle fratture dell’Est. E la risposta non può che essere multipla. Militare, attraverso l’Alleanza Atlantica. Economica, attraverso le sanzioni. E già qui le divisioni tra Usa e Ue e tra i singoli Stati dell’Unione rappresentano un gigantesco ostacolo. Tra le sanzioni sarà compreso anche lo “Swift”, cioè il divieto di accesso per i russi ai circuiti bancari e finanziari, eventualità che allarmerebbe una parte di operatori americani? E sarà colpito anche il mercato del gas, cosa che metterebbe in crisi mezza Europa, che importa il 90 per cento del suo fabbisogno attraverso i metanodotti russi? Quel che è certo è che l’Ucraina è diventata suo malgrado uno stress test cruciale per ridefinire gli equilibri geostrategici della fase. Per un Occidente che prova a rialzare un muro alle mire espansionistiche di Putin, c’è uno Xi Jinping che aspetta di capirne l’entità e l’efficacia, per poi ridefinire le sue. A Monaco il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ripete che Pechino “è per la tutela della sovranità e l’indipendenza di tutti i Paesi, e l’Ucraina non fa eccezione”: ma poi aggiunge che “le preoccupazioni della Russia devono essere rispettate”. Anche se Putin soffre il ruolo di junior partner di Xi, è evidente che le due grandi autocrazie post-imperiali si schierano contro le democrazie liberali. Ed è ancora più chiaro che la Cina aspetta solo di capire se l’America, dopo aver abbandonato al suo destino Kabul, adesso è davvero pronta a morire per Kiev. Perché se questo non accadesse, la prossima mossa che dobbiamo aspettarci sullo scacchiere indo-pacifico è che Xi Jinping dia via libera all’annessione di Taiwan. E allora le prospettive della pace si farebbero ancora più fosche.
Nel conto economico, chi ha più da perdere con la guerra siamo noi italiani. Le sanzioni già decise dopo l’invasione della Crimea hanno già dimezzato il nostro export verso Mosca, sceso e poi risalito a quota 11 miliardi. Ma il prezzo più alto lo stiamo già pagando con la bolletta energetica. Il nostro prezzo netto dell’elettricità è il secondo più alto d’Europa. Per l’industria, 225 megawattora, di poco più basso di quello spagnolo ma del 35 per cento più alto di quello tedesco. Pesano lo scarso mix energetico dei nostri approvvigionamenti, la dipendenza quasi totale dal gas russo, la pressione fiscale sull’energia (41 per cento, la più alta della Ue). Vuoti che non si riempiono in pochi mesi. L’ultimo decreto del governo ci ha messo una toppa da 6 miliardi. Siamo il Paese che, con 16 miliardi di interventi complessivi, ha speso più di tutti per neutralizzare il caro-bollette su famiglie e imprese: l’1 per cento del Pil, rispetto allo 0,7 della Francia, lo 0,53 della Spagna e lo 0,24 della Germania. Ma Pantalone non paga in eterno. In sedici mesi abbiamo varato sette scostamenti di bilancio, per un importo complessivo di 185 miliardi. Allargare ancora i cordoni della borsa è impensabile.
Ma questo chiama in causa la politica, che a maggior ragione in un mondo sulla soglia della guerra dovrebbe mostrarsi capace di quel colpo d’ala che aspettiamo da tempo. Non c’è limite all’incoscienza dei partiti, che in Parlamento sfasciano la maggioranza a colpi di geometrie variabili o dopo il Consiglio dei ministri bombardano il quartier generale di Draghi chiedendo ogni volta un “più uno” rispetto a quello che si è appena approvato (vedi M5S e Pd sulla riforma Cartabia o Lega e Fi sul decreto energia). E se il premier alza la voce, e dice “così non si può andare avanti”, non lede nessuna maestà. Chiede solo responsabilità. Va garantita. Anche in un anno elettorale. E soprattutto in un momento di gravissima tensione internazionale. A chi oggi dubita di questo governo, e magari sogna elezioni anticipate, viene da chiedere come si troverebbe oggi l’Italia, se a guidarla ci fossero ancora i gialloverdi del 2018. Un vicepremier pentastellato, che tesseva la tela delle Vie della Seta con Xi, e un vicepremier leghista che a Mosca diceva “qui mi sento a casa mia, in altri Paesi d’Europa no”. Questo eravamo allora, e per fortuna non siamo più.
LA STAMPA
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