Ernesto Galli della Loggia: “Si scrive carneficina ma si legge resistenza”

di  Alessandro De Angelis

Professor Galli della Loggia, questa è un’intervista sul cosiddetto “realismo”. Quelli che dicono “a che serve prolungare la carneficina”, anche mandando armi all’Ucraina, meglio trattare con Putin. È semplicemente una riedizione dello spirito di Monaco o qualcosa di più complesso?

Diamo un nome alle cose. La carneficina si può chiamare anche resistenza. A che serve la resistenza? A logorare le forze del nemico, cosa che mi pare stia accadendo. Se i russi non sono lì a dettare le condizioni è perché c’è stata la carneficina. E combattere implica anche che si possa morire, ma vale per entrambe le parti. Sappiamo poco dei numeri della carneficina dei russi che però pesa eccome, perché Putin non può sopportare più di tanto i morti, senza che qualcosa inizi a scricchiolare, come trapela a proposito di segnali di insofferenza interni anche nell’organismo militare.

Sempre lì si torna, alla resistenza come presupposto della trattativa.

Qui c’è un punto veramente bislacco su questo “trattiamo”, senza che peraltro Putin sembri averne molte intenzioni. Essendo gli ucraini quelli che resistono sono loro i padroni della trattativa. Sono loro che bisogna ascoltare prima di avviare qualunque trattativa. Si può immaginare che qualcuno tratti a nome loro, i quali peraltro è da giorni che con i russi trattano, con i risultati che vediamo? In verità l’idea, per come è formulata, sottintende una cosa loschissima: noi trattiamo con Putin per ridurre il nostro aiuto alla resistenza. Così gli ucraini, indeboliti, sono in qualche modo costretti a cedere e noi facciamo bella figura.

Ci vede anche un eccesso di “politicismo”, anche molto italiano, neanche fosse una crisi di governo? “Mandiamo la Merkel”, “apriamo il tavolo”, che poi non si capisce perché dovrebbe riuscire la Merkel dove non ce l’hanno fatta Scholz e Macron.

Non è un eccesso di politicismo, sono pure corbellerie. Perché la Merkel dovrebbe accettare, col rischio di andare a sbattere contro un muro e giocarsi immagine e storia personale? E poi perché dovrebbe riuscire dove altri hanno fallito, peraltro senza rappresentare più neanche la Germania? Perché sa il russo? E perché mai il cancelliere socialdemocratico in carica dovrebbe mandare lei, la sua ex principale avversaria politica, perché dovrebbe regalare un eventuale successo alla Cdu? Lei capisce: parole in libertà.

Lei ha detto una cosa importante: sono gli ucraini i titolari del proprio destino. Quanto impatta la cultura del benessere, intesa come predisposizione a una lettura materialistica del conflitto, nel sentirci noi padroni del loro? Voglio dire: l’altra sera da Lilli Gruber era ospite un tennista ucraino, che è stato numero 31 del mondo, non ha mai preso una pistola in mano e si è arruolato, pur non sapendo sparare in nome della libertà, bene non negoziabile.

Questo esempio che lei fa riguarda innanzitutto il tema della coesione e della cultura nazionale. Il tennista va lì anche perché, se non impugna le armi, quando torna a impugnare una racchetta su un campo ucraino deve fuggire sotto una valanga di fischi. È il sentirsi nazione, comunità di destino. Poi c’è il tema della cultura della virilità: gli uomini combattono, le donne stanno a casa o mettono in salvo i bambini, una cultura che contraddice un secolo dei nostri discorsi sul gender. Per noi, che concepiamo solo il diritto di vivere è inconcepibile il dovere di combattere e del coraggio fisico, anche rischiando di farsi ammazzare. E qui l’elemento fondamentale è la religione: se credi in Dio muori più facilmente. Se togli la trascendenza divina dalla cultura diffusa di una società anche per gli atei rischiare di morire diventa più difficile perché i valori sono un universo complesso nel quale in qualche modo si tengono tutti assieme: la libertà non si mangia, è qualcosa di trascendente e il martirio ha un coté religioso. Tutta la storia culturale degli ultimi due secoli viene messa alla prova.

Domanda vasta: quanti punti di Pil siamo disposti a sacrificare per la libertà, percependo la loro libertà come la nostra, al netto della retorica del siamo tutti ucraini? Resistenza o bollette?

Bella domanda. A giudicare dal discorso che abbiamo fatto, direi pochissimi punti. Viviamo in una cultura politica dominata dall’economia e ad essa subalterna. I valori forti, ideologici – libertà, democrazia – sono stati cancellati mentre la delega a difenderli è stata assegnata al mondo anglosassone. Una cosa come l’Ucraina implica una riconversione brutale che ci trova impreparati totalmente.

Insomma professore, trent’anni dopo l’89 e l’illusione della “fine della storia” si ripropone il tema di un nuovo ordine mondiale.

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