Il dolore altrui, i nostri dilemmi
di Ferruccio de Bortoli
Il dolore degli altri, reso acuto e straziante da una guerra alle porte dell’Europa, scuote le coscienze individuali e solleva antiche paure che credevamo ormai sepolte nelle memorie familiari. Siamo solidali e generosi con il popolo ucraino, aggredito da Putin, ed è encomiabile lo slancio dell’accoglienza di fronte all’esodo di profughi più massiccio dalla fine della Seconda guerra mondiale. Anche da parte di chi, specie nell’Est Europa, aveva eretto, vantandosene, barriere di filo spinato per respingere disperati in fuga da altre tragedie o, in casa nostra, invocava blocchi navali, voltando lo sguardo altrove. Il dolore non ha latitudine né colore della pelle. E non esiste una graduatoria del valore delle vite. Anche se a perderle è qualcuno più vicino a noi, più simile a noi, parte irrinunciabile della nostra storia europea. Come ci comporteremo, d’ora in poi, con chi fugge da guerre e carestie (indotte anche dall’attuale conflitto) e approda lungo le nostre coste?
Ma c’è un’altra domanda che dobbiamo fare a noi stessi, confidando in un sussulto di sincerità. Quanto saremmo disposti a pagare, in termini di sacrifici, per difendere le libertà e i diritti di altri che mai come in questo momento, scopriamo essere fragili come i nostri? E basta il timore di rimanere al freddo, di rinunciare anche a un briciolo del nostro benessere, delle nostre comodità, per mettere in discussione la sacralità di quei principi e giustificare sempre il «sano realismo» delle convenienze? L’appeasament 2.0. Non avendole conquistate noi, quelle libertà, ma altre generazioni, non è fuori luogo avanzare il dubbio sul loro valore di scambio. Considerandole acquisite per sempre le abbiamo svalutate.
Essere consapevoli dei nostri limiti, e delle relative ambiguità, ci aiuta a capire meglio quanto quelle libertà siano essenziali e a difenderle da debolezze e paure. A proteggerci di fronte alle svolte improvvise, a choc inattesi. Ma anche a comprendere — ed è questo il punto — che i buoni sentimenti hanno un costo. Una solidarietà gratuita è solo apparente. Non ci si può illudere — come è avvenuto per esempio con le tante assenze al voto alla Camera sugli aiuti all’Ucraina — che si possa essere concretamente solidali senza mettere in discussione qualche posizione acquisita e accettare delle rinunce. Se per esempio si decide di investire di più per la difesa (leggi armi) è inevitabile che si tolga qualcosa ad altre attività civili, la sanità per esempio. A meno che non si sia intimamente convinti — e ne abbiamo il sospetto — che ci si possa indebitare spendendo senza limiti. Il vecchio dilemma (burro o cannoni) torna d’attualità. Far finta di niente è un modo di ingannare, oltre gli altri, molti dei quali sotto le bombe, anche noi stessi. E ancora: ogni pericolo più grande (la guerra) ne scaccia un altro (il Covid) ma non lo elimina d’incanto, anche se nella percezione collettiva è esattamente quello che sta accadendo. Così come un grave stato di necessità, come la dipendenza dal gas russo e l’esplosione dei costi dell’energia, non toglie drammaticità all’emergenza ambientale che pare di colpo dimenticata. E c’è da dubitare sulla nostra reale volontà di difendere l’ambiente se basta uno scossone ai mercati per rendere indispensabile ciò che avremmo voluto bandire per sempre (esempio il carbone). Senza alcuna discussione. La transizione energetica è più complessa e costosa di quanto non si pensi.
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