Una domanda (a noi) sulla resistenza
È fin dall’inizio, infatti, che dalle più diverse parti, qui in Italia (soprattutto qui in Italia, mi pare) si levano voci sull’inutilità e perfino l’immoralità della resistenza, sull’assoluta inopportunità di rifornirla di armi, sull’«assurdità» della guerra, di ogni guerra in quanto produttrice solo di morte e distruzione. Voci intente a convincerci che di fronte all’eventualità della guerra ogni altra considerazione deve passare in secondo piano di fronte alla necessità della pace: qui, subito, a qualunque costo, e dunque trattare, trattare, trattare. Sempre, con chiunque e comunque.
Dietro tutto ciò c’è molto più di una semplice presa di posizione politica. Si sente una profonda trasformazione del panorama culturale del nostro Paese, in specie delle sue classi colte. Si sente l’oblio ormai diffusissimo del passato, la cancellazione della storia come elemento strutturante dell’esperienza e della mentalità. Si sente l’oblio del carattere tragicamente drammatico che può avere la storia. L’oblio dell’asprezza ultimativa, non compromissoria, dei valori politici collettivi (l’indipendenza nazionale, l’autodeterminazione, la sovranità) cui le scelte dei popoli e dei governi spesso sono chiamate. Nell’Italia contemporanea, viceversa, si è diffusa una mentalità che in alternativa alla storia è andata sempre più ispirandosi non già ai valori politici di cui sopra bensì ai diritti individuali visti come sostanza di una presunta, pacificatrice, etica universale. Una mentalità nella quale, come si capisce, per la guerra e per tutto ciò che è in essa di razionale e di irrazionale, e anche di morale, sì di morale, non può esserci posto. Nella quale la dimensione del conflitto, dei meccanismi e dei sentimenti fatali che lo determinano, la dimensione del coraggio delle persone e delle aspirazioni dei popoli, l’elemento dell’eroismo e della malvagità, appaiono tutte entità dal tratto primitivo da esorcizzare. In questo modo tutto finisce per essere posto sullo stesso piano: i ventenni ucraini che si preparano a combattere i tank russi e Putin che li ha mandati a Kiev, chi lancia i missili e chi li riceve sulla testa. Ed è così che sotto l’urto delle armi che si affrontavano nelle pianure dell’Est l’oblio della storia è divenuto oblio puro e semplice della realtà. E allo stesso modo, priva dell’ancoraggio nella stessa realtà, l’etica si è mutata fatalmente in moralismo: ipocrita come tutti i moralismi. Un’irrealtà moralista dove regna l’algida ragionevolezza del rifiuto della forza, il rifiuto di aiutare il debole e l’aggredito, perché così si violerebbe l’obbligo supremo e della «pace» della «trattativa». Sicché alla fine — paradossalmente ma non troppo — la cultura che pretende di parlare in nome delle vittime, della loro assoluta centralità, diviene di fatto l’alleata della tirannide che produce le vittime stesse.
Non intendo turbare la beata sicurezza dei critici della «mistica della resistenza» così preoccupati di scongiurare le luttuose conseguenze che essa comporta. Forse farebbero bene a ricordare però che la loro libertà odierna di pensare e di scrivere ciò che vogliono non è dipesa da nessuna «trattativa», da nessuna sollecitudine per morti e feriti. La loro libertà è stata pagata anche dal sangue di migliaia di bambini tedeschi massacrati dai bombardieri alleati, è stata pagata anche dal dolore di migliaia di donne tedesche stuprate dai soldati dall’Armata Rossa. Perché la storia è fatta di queste cose terribili: non delle chiacchiere di chi parla per compiacersi dei propri buoni sentimenti.
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