La guerra santa del dittatore e le anime perse del Belpaese
C’è anche questo, adesso, nella Guerra Santa di Putin. L’attacco diretto al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, «colpevole» di aver chiesto il supporto della sanità russa nella prima ondata pandemica, e ora di aver guidato lo stormo dei «falchi ispiratori della campagna anti-russa del governo italiano». Alle farneticazioni di Alexei Paramonov ha risposto come si deve Mario Draghi, giudicandole odiose e inaccettabili. Ma al di là della forma, conta la sostanza. E la sostanza conferma due evidenze. La prima evidenza è che la Russia è in difficoltà, sul fronte interno più ancora che su quello ucraino. È vero, come scrive il Guardian, che «questa non è una guerra per il petrolio e il gas, come potrebbero essere definite troppe disavventure statunitensi in Medioriente, ma è comunque una guerra finanziata dal petrolio e dal gas». Dunque l’Europa, per comprare quel gas e quel petrolio, continua a versare alla Russia un assegno da quasi un miliardo di euro al giorno, col quale il Grande Dittatore finanzia una parte delle operazioni belliche. Ma è altrettanto vero che in quest’ultima settimana, anche se ha scongiurato il default rimborsando in dollari due bond in scadenza, il Tesoro russo arranca con un’inflazione a due cifre, un rublo svalutato del 30 per cento e gli scaffali mezzi vuoti nei negozi.
La seconda evidenza è che, come ha fatto fin dall’inizio di questa avventura criminale, la Russia sta riprovando a rompere il fronte occidentale. Putin l’ha fatto già tre settimane fa: vista la fuga indecorosa di Biden dall’Afghanistan, era convinto che l’America e l’Europa gli avrebbero concesso il bis del 2014, quando colpevolmente gli lasciarono mano libera sulla Crimea. Non è andata così. E per quanto cementato da interessi non sempre convergenti, l’asse delle democrazie ha retto l’urto e ha reagito. Ma ora che la guerra va avanti e la diplomazia ristagna, Putin ci riprova. E punta dritto su quello che deve sembrargli l’anello debole della catena occidentale: l’Italia, appunto. L’Italia, che con la Russia ha sempre avuto relazioni fruttuose: non solo in termini commerciali (il made in Italy vale più di 7 miliardi di export l’anno) ma soprattutto in termini energetici (l’aumento della nostra dipendenza dal gas russo, che ora copre il 45 per cento del fabbisogno totale, inizia con l’ultimo governo di Berlusconi, amico fraterno dello Zar, e da allora non si ferma più). L’Italia, che in questi ultimi anni ha intessuto con la Russia relazioni pericolose: dal governo turbo-populista e grillo-leghista del 2018 in poi, tra Salvini che si attovaglia allegramente a cena all’hotel Metropol e lo stesso Di Maio che accoglie personalmente a Pratica di Mare gli Antonov con gli aiuti militari e sanitari, abbiamo commesso non poche leggerezze. I russi lo sanno: per questo fanno la voce grossa. Come fecero con questo giornale, quando nel marzo 2020 raccontammo la natura “ibrida”, e per molti versi inquietante, della delegazione di Mosca sbarcata qui da noi e guidata da generali che avevano fatto la guerra in Siria e militari dei servizi segreti moscoviti.
L’Italia, infine, che ancora si diletta nel miserabile derby tra putinisti e anti-putinisti. Nonostante l’orrore al quale assistiamo ogni giorno, le città ucraine rase al suolo come già successe a Grozny e ad Aleppo, tra le truppe cammellate grillo-leghiste c’è ancora qualche anima persa che non vuole far parlare il presidente Zelenski al Parlamento italiano (come hanno già fatto Westminster a Londra, l’Assemblea Nazionale a Parigi, il Congresso a Washington e oggi la Knesset a Gerusalemme) perché allora bisogna far parlare anche «il presidente Putin». I fulminati della Pax Russica esigono dunque la par condicio bellica: se ascoltiamo la vittima, allora dobbiamo sentire anche il carnefice. Caspita, sicuramente avrà ottime ragioni per spiegarci che le bombe su ospedali e teatri sono solo fake news e che gli ucraini sono impegnati in un suicidio di massa. Con un Paese così, se sei il carnefice e ci hai fatto molti traffici e buoni affari, ti conviene provare a fare la faccia feroce. E magari sperare che una simile astenia politico-culturale indebolisca anche gli alleati europei.
Sta all’Italia, adesso, far fallire miseramente anche questo secondo tentativo di Putin. Respingendo con forza qualunque minaccia e rifiutando ogni forma di “intelligenza col nemico”, sia pur continuando a lavorare ogni giorno e ogni ora perché prevalgano le ragioni del dialogo su quelle del conflitto. Finora, tutto sommato, ci siamo riusciti. E, a dispetto di una narrazione un po’ corriva, va riconosciuto che la vera faglia non è rossa, ma è giallo-verde. Almeno a livello parlamentare, il partito del «né con Putin né con la Nato» non è tanto a sinistra, ma paradossalmente più a destra e nell’area grillo-leghista. Enrico Letta ha espresso parole nettissime sulla guerra di Putin, posizionando inequivocabilmente il Pd dalla parte giusta della Storia. La stessa cosa, con sfumature diverse, si può dire persino per la sinistra radicale di Nicola Fratojanni, che oggi sull’invasione russa non ha la stessa posizione che nel ’99 tenne Rifondazione Comunista sull’intervento nella ex Jugoslavia. Poi, certo, fuori dal Parlamento e nei talk show non mancano gli intellettuali che invocano la «complessità»: fanno il loro mestiere, li rispetto anche se spesso non li condivido. E ci sono pure i «pacifisti cinici», gli anti-americani a oltranza, o i nostalgici del Pcus. Ma per fortuna sono minoranza. Tutti vogliamo la pace. E dobbiamo lavorare per raggiungerla. Ma non ci beviamo il Vangelo del Grande Dittatore, che cita a sproposito il capitolo 15 di Giovanni e, per nascondere la sua vera natura, omette il versetto più importante: «Voi siete miei amici se farete ciò che io vi comando».
LA STAMPA
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