I raid spianano l’università di Kharkiv: “Neanche Hitler l’aveva fatto”

È questa la priorità per il popolo di Kharkiv non cancellare la quotidianità, anche in guerra, perché significherebbe che i russi hanno raggiunto già un risultato, atrofizzare la città, svuotarla, affamarla e poi colpirla. Kharkiv invece resiste, aggrappata alla vita, come combattenti di Kulinichi sono aggrappati alle trincee delle prime linee. Spazi ridotti e angusti riscaldati da vecchie stufe a legna su cui ripassare una minestra, accanto a brande e coperte, un po’ di viveri e armi di ogni genere appese alla parete vicino all’uscita, in caso di attacco la reazione deve essere veloce. Il sergente Xapo si dirige in un’altra trincea dove nascosta sotto una rete di fogliame c’è il Btr, il mezzo blindato usato dall’esercito ucraino dotato di mitragliatrice pesante ma anche di missili antiaerei. Salirvi a bordo è un’eccezione rara, per motivi di sicurezza le forze di Difesa tengono ben lontani occhi indiscreti, ogni dettaglio rivelato è un punto a favore del nemico.

La postazione trincerata è fatta per un’agevole uscita del mezzo in caso sorgesse la necessità di posizionarsi a ridosso della zona grigia. I russi sono due chilometri più a Est, sempre più spesso usano droni ed elicotteri. Una escalation destinata a proseguire, con l’arrivo di rinforzi di Mosca da Est e da Ovest grazie al disimpegno su Kiev annunciato dagli emissari di Putin nel negoziato turco. «Non temiamo nulla», dice Roman anche lui di lungo corso, ha lavorato in Italia per un breve periodo ha avuto a che fare con la Beretta: «Appena finisce tutto questo voglio tornare nel vostro Paese». Ma quando? Il quesito rimane sordo, poi il motto «Slava Ukraïni!», a troncare il discorso. Igor è anche lui veterano ma della Guardia nazionale, anche lui ha fatto la campagna del Donbass nel 2014. Usa toni più riflessivi: «Ho studiato per fare il medico e salvare le vite, ora mi ritrovo a fare il medico che è costretto a uccidere per difendere la mia famiglia, il mio Paese, la mia gente». La gente di Kharkiv, quella rimasta (circa il 30% sono andati via), il popolo delle vite sospese, costretti a vivere negli scantinati, riscoperti bunker, aggrappati alla speranza che l’avvenuta liberazione rimanga tale. C’è invece chi è aggrappato ai ricordi come Nina, abita Pavlovopolie, bombardato più volte. «Quando è iniziata la Seconda guerra mondiale avevo sei anni, oggi ne ho 86 e rivedo lo stesso orrore, prima quando c’erano i sovietici occupavano e basta, ora distruggono, hanno distrutto anche il mio giardino».

La donna indossa un giaccone rosa e un fazzolettone in testa, cammina a fatica con un bastone, si ferma, parla e poi riparte, una sequenza regolare, lenta e sofferta. «Almeno quando avevo sei anni c’era mia mamma a proteggermi, oggi non ho nessuno». Nykolai vive anche lui a Pavlovopolie, scende in strada vestito di tutto punto, giacca di pelle, basco e occhialoni da sole, alle mani ha dei guanti da lavoro, leva le macerie davanti al suo cortile. Racconta dell’ultima bomba piovuta dal cielo, trasmette paura e desolazione, poi i nervi cedono, dagli occhialoni spuntano lacrime, se li leva, si asciuga il viso, guarda fisso le macerie: «Nemmeno Adolf Hitler era riuscito a farci questo».

LA STAMPA

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