L’Occidente è già entrato nell’economia di guerra

Le definisce proprio così, il nuovo Rasputin del Cremlino, le nostre democrazie liberali: “lebbrose”. Putin, nel giugno 2019, sul Financial Times era stato solo un po’ più morbido: le aveva liquidate come “decadenti e obsolete”. Ma la sostanza non cambia. C’è un filo nero che in questo tempo del ferro e del fuoco unisce questa corrente di pensiero a quella dell’Internazionale Sovranista auspicata da Steve Bannon per conto di Trump, che vede nel ritorno degli Stati nazionali autoritari e nel superamento della liberal-democrazia e del multilateralismo la soluzione alle crisi globali del Terzo Millennio. E purtroppo – al di là del pugno e del bavaglio della democratura ormai trasfigurata in dittatura, dei 3.500 arresti di piazza contro i dissidenti, dei 9 anni di carcere appena inflitti a Navalny per una ridicola “corruzione” nell’import di profumi, dei social oscurati e della Novaja Gazeta chiusa per censura – ci deve essere anche un filo nero che unisce questa dottrina del potere messianica e iper-nazionalista al popolo russo. Per quanto sospetti, non si spiegano altrimenti i sondaggi moscoviti che danno la popolarità del presidente salita all’83 per cento grazie alla guerra in Ucraina.

Un dato agghiacciante, che obbliga noi a pronunciare qualche dolorosa verità, rispetto alla fragorosa menzogna di Putin. La prima verità, come stiamo vedendo, è di ordine politico-militare: la guerra sarà lunga, un osceno Vietnam russo, e lo Zar continuerà a usare a lungo il suo doppio vestito di scena. Da un lato finge di negoziare, mandando emissari improbabili ai tavoli turchi o israeliani. Dall’altro continua a bombardare, trasformando Mariupol e Kharkiv in Grozny e Aleppo. E anche qui, basterebbe rileggere le terribili corrispondenze cecene della Politkovskaja, per capire che tutto è già fatto e già scritto nel copione del Tiranno. La seconda verità, come testimoniano gli appelli sempre più forti del governo di Kiev, è di ordine etico-morale: mentre dobbiamo inseguire a ogni costo la via diplomatica, evitando qualunque rischio di scivolare nella Terza Guerra Mondiale, non possiamo non continuare a sostenere la resistenza ucraina. Lo dobbiamo non solo a noi stessi, che siamo la culla della ragione e del “logos”, dello Stato di diritto e delle Costituzioni: ce lo chiede un popolo intero, pronto a morire per la sua terra e per la sua libertà. Lo ribadisce sempre Zelensky, agli americani che gli offrono una via di fuga dalla capitale ucraina: «La lotta è qui, ho bisogno di munizioni, non di un passaggio».

La terza verità, come dimostrano i numeri, è di ordine economico-sociale: checché ne dicano i nostri governanti, noi siamo già entrati in “economia di guerra”. La prudenza dell’establishment europeo è decisamente fuori luogo. È giusto non alimentare la paura, ma è sbagliato nascondere la realtà. E la realtà, oggi, dice che il quadro macro-economico mondiale sta scivolando verso la stagflazione. Come sostiene Lucrezia Reichlin, «il silenzio dei leader europei di fronte alle sfide economiche future è sconcertante» (ieri, sul Sole 24 Ore). In Europa, più che in qualsiasi altra parte del mondo, i governi nazionali dovranno aumentare in modo significativo la spesa pubblica, per rafforzare le proprie capacità di difesa, costruire nuove infrastrutture energetiche, sostenere famiglie e imprese che devono far fronte al rincaro dei costi delle bollette e reggere l’urto di un’ondata di rifugiati senza precedenti.

I debiti pubblici, già esplosi con le spese altissime sostenute per proteggere i cittadini dalla pandemia, cresceranno ulteriormente. L’inflazione farà il resto. In Spagna siamo al 9,8 per cento, in Germania al 7, record degli ultimi 40 anni. In Italia siamo a ridosso, con in più, per la famiglia media, una stangata di 948 euro sulla luce e di 1.652 euro per il gas nell’ultimo anno. Nel Def, che sarà approvato la prossima settimana, il ministro Franco parla di una significativa revisione al ribasso della crescita 2022, non superiore al 3 per cento. Temo sia persino troppo ottimistica: Confindustria prevede un Pil al rialzo di appena 1,9 punti. Nonostante tutto, il premier Draghi assicura che non siamo in “economia di guerra”, mentre il ministro Cingolani assicura che abbiamo riserve di gas fino a ottobre inoltrato e in «due-tre anni saremo completamente indipendenti dalla Russia». Vorrei sbagliare, ma come Reichlin anch’io temo che ci stiamo cullando in scenari troppo rassicuranti. A prescindere dal mezzo bluff sull’obbligo di pagare le forniture in rubli, questa sanguinosa “Guerra Santa” ha già ora un impatto strutturale e devastante sulle economie del pianeta. Basta leggere il bollettino della Bce. I prezzi dell’energia resteranno più alti a lungo, con il gas già salito del 52 per cento e il petrolio del 64 da inizio d’anno. La stessa cosa vale per i prezzi dei beni alimentari, visto che Russia e Ucraina rappresentano il 30 per cento delle esportazioni mondiali di grano e frumento. Gli ingranaggi della grande catena del valore globale sono già ora quasi bloccati. L’alta tecnologia è ferma, per carenza delle materie prime utili alla lavorazione dei microchip, senza i quali non si fabbricano smartphone, computer, automobili: il palladio, di cui la Russia è prima esportatrice al mondo, e soprattutto il gas neon, di cui l’Ucraina da sola copre il 70 per cento del fabbisogno globale. Dopo gli ultimi bombardamenti russi, hanno chiuso gli impianti della Ingas a Odessa e della Cryoin a Mariupol: secondo la Reuters, producevano rispettivamente il 45 e il 54 per cento del neon mondiale per semiconduttori.

Il “costo” della sporca guerra russa, oltre all’orrore e al dolore insopportabile per le tante vite umane distrutte, è anche questo. La “Putin Tax”, che in vario modo pagheremo tutti, per chissà quanti anni. E che come sempre farà più male ai deboli, ai poveri, ai dannati della terra. «Lui può distruggerci, se lo desidera. Noi non siamo niente. Lui, finito dov’è per puro caso, è il dio e il re che dobbiamo temere e venerare. La Russia ha già avuto governanti di questa risma. Ed è finita in tragedia. In un bagno di sangue. In guerre civili. Io non voglio che accada di nuovo». È ancora Anna che scrive, e che ha già capito tutto. Per questo, pochi mesi dopo, un ignoto sicario gradito al Cremlino la farà tacere per sempre, con tre colpi di pistola in faccia.

LA STAMPA

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